La donna che vendeva i bambini aveva aperto il negozio in una
casetta del Montana. Nella città chiamata Butte, dal nome delle famose, tronche
colline del Far West con la cima piatta, Gertrude Pitkainen riceveva i clienti senza
formalità e senza sconti. La merce costava cara, circa seimila dollari di oggi,
ma era freschissima. In una stanza c’era la puerpera, spesso ancora ansimante
sul lettino dove aveva partorito. Nella stanza accanto, divisa da una parete
con una tendina che Gertrude schiudeva al momento della nascita, c’era
l’acquirente, avvertita con una telefonata alle ultime fasi del travaglio.
Doveva essere una donna, sempre e soltanto una donna, perché Gertie, come era
conosciuta in città, non transigeva, per pudore e rispetto delle partorienti.
Se la cliente era accompagnata da un uomo, lui doveva aspettare fuori, sul
marciapiedi, fumando nervosamente come facevano un tempo i padri naturali. Era,
naturalmente, tutto fuori legge. Un reato gravissimo, ma Gertie non era una
mammana. Era un’ostetrica qualificata, con un lavoro stabile nella maternità
del maggior ospedale della città, e all’attività privata riservava soltanto il
tempo fuori dai turni. Era stata la sua professione a suggerirle l’idea di
vendere i figli di donne che non li volevano. Quando incontrava ragazze o
signore in lacrime nelle sale d’attesa dell’ospedale, sconvolte dalla scoperta
di essere incinte senza averlo desiderato, offriva due possibili soluzioni:
l’aborto, allora rigorosamente proibito dalla legge, che lei praticava in
condizioni sanitarie nel suo piccolo studio, o la vendita sfacciatamente
illegale, ma senza pastoie legali, della creatura subito dopo il parto. Un
fagottino, un certificato di nascita e via. Quanti siano stai i “Gertie baby”,
i bambini di Gertie, come li ha battezzati il New York Times che ha raccontato
la sua storia, non è dato sapere con certezza (..). E’ sta Heather Livergood,
una ex segretaria di 69 anni a scoprire il segreto di quella casa nel Montana,
quando venne a sapere dalla madre in punto di morte che lei non era la figlia
naturale, ma uno dei bimbi venduti. (..). Venne a sapere di avere un cugino,
primo figlio di una certa Violet, una giovane donna che alla fine del 1945 era
rimasta incinta mentre il marito era al fronte. Anche Violet era corsa nella
casa di Gertie. Un gomitolo di fili umani, di storie personali e famigliari si
sta lentamente dipanando grazie alle ricerche e ai confronti del Dna,
l’inconfutabile carta d’identità di ogni persona. Il filo di Arianna conduce
alla casetta nel Montana in uno svolgersi particolarmente doloroso, perché i
“figli di Gertie”, ormai tutti adulti o anziani, non avevano mai sospettato di
essere stati acquistati, né potevano cercare documenti di un’adozione avvenuta.
Soltanto il lavoro investigativo, certosino e spesso fortuito di collegare fili
e tracce del dna passato per cugini, nipoti, figli che quelle stesse donne
disperate avrebbero avuto in seguito, sta permettendo a bambini di Gertie di
smentire quella che sembrava essere l’ultima saggezza popolare intoccabile:
neppure la madre – lasciamo perdere il padre – è sempre certa.
Vittorio Zucconi – Donna di Repubblica – 25 aprile 2015 -
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