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domenica 30 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Perchè piace tanto il maschio con la barba...


Per La Serie “studi e ricerche” inutili che però tutti finiamo per leggere, questa settimana parliamo di barbe. Con una premessa necessaria: l’autore di questa rubrica porta la barba, in varie fogge, tagli e, ahilui, colori, da quando aveva vent’anni, quindi è poco obiettivo in materia. La barba, dopo decenni di intense e totali rasature, è ridiventata popolarissima negli Stati Uniti, ormai esibita anche in professioni che un tempo la aborrivano, come quelle della finanza, della legge, dello sport. Resta ancora osteggiata dalla politica, per non generare negli elettori già diffidenti il sospetto che, sotto quella peluria, l’onorevole nasconda qualche cosa. Richard Nixon, nel 1960, perse il dibattito tv contro il rasatissimo John F.Kennedy anche per l’ombra corvina che la crescita della sera aveva dipinto sulle sue guance e che, sotto i riflettori crudeli del bianco e nero, gli dava un aspetto sinistro. Ma di fronte alla diffusione delle barbe di varia lunghezza era inevitabile che psicologi, studiosi del comportamento e neurologi armati di macchinari per la risonanza magnetica si chiedessero quali ragioni potessero spingere tanti maschi della nostra specie a farsela crescere. E la risposta è, sorpresa: il sesso. Ogni foggia porta con sé diverse forme di richiamo sessuale per le femmine e, nella stessa forma, poi gli omosessuali maschi, inviando segnali e stimoli che i ricercator hanno individuato nell’attività cerebrale. Una barbetta corta, tipo quattro o cinque giorni, che dona un aspetto apparentemente trasandato e trasgressivo, attira donne che cercano un’avventura, senza impegni a lunga scadenza. Con il crescere della peluria, fino al solido barbone con baffi, diminuisce l’attrazione fisica istantanea, mentre aumenta l’attenzione delle femmine che progettano di formarsi una famiglia con quell’uomo. In qualche angoletto oscuro del nostro cervello, pur nel corso dei millenni, conclude lo studio pubblicato da Evolution and Human Behaviour – pubblicazione seria, non rivista da barbiere – sopravvive dunque l0idea che un uomo barbuto possa rappresentare una migliore protezione contro predatori che nella notte vogliano aggredire il nostro nido, con clava e bastoni. La lunghezza della barba, e cito sempre l’autorevole studio, che ho letto riassunto sul New York Times perché mai oserei affrontare il voluminoso saggio originale, dipende in buona parte anche dall’ambiente nel quale vive il portatore e dal livello socio-economico. Nei quartieri più poveri dove il richiamo della ricchezza non è sfruttabile, pare che le barbe si infoltiscano e allunghino, per segnalare il carattere “alfa”, aggressivo e dominante, e si accorcino e si diradino con l’aumentare del reddito. Ci sono più barbuti in città che nei sobborghi. Chi ha molti soldi e può esibire segnali di prosperità, non sente il bisogno di dotarsi di bavaglini pelosi. Da manifesto di potenza politica ed economica, abbandonato dal 1909, quando entrò alla Casa Bianca William Taft, l’ultimo presidente americano barbuto, a oggetto di disprezzo sociale espresso nell’insulto al “barbone”, passando per la moda ideologica del “barbudo” castrista, oggi la barba è tornata a essere oggetto di semplice richiamo amoroso. Un richiamo che getta nella disperazione coloro che non possiedono abbastanza peli e dunque devono ricorrere a trapianti. Il numero di trapianti di barba si è quadruplicato negli ultimi dieci anni, soprattutto in Asia, informa sempre l’inutile ricerca scientifica. Alla quale, tuttavia, qualche ragione devo pur riconoscere, visto che porto la barba da oltre mezzo secolo e sono felicemente (almeno per me) sposato da altrettanti anni. Per me, ha funzionato. Anche se non ho mai dovuto respingere assalti di predatori notturni dalla mia caverna.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15 settembre 2018 -

sabato 29 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Esiste ancora la democrazia?...


Siamo Già In una dittatura! E’ la dittatura dell’informazione televisiva che risponde a un solo scopo: l’audience! Senza nessuna etica. E senza nessun interesse verso i cittadini-spettatori. I politici più disincantati usano questo meccanismo per autocelebrarsi.
Piermario Spotti   piermariospotti@gmail.com

Se Per Dittatura pensiamo a quelle che periodicamente si succedono nei Paesi dell’America latina, e ora stabilmente nell’emisfero cinese, se pensiamo a dittature mascherate da messe in scena democratiche come in alcuni Paesi musulmani, in Turchia, in Russia, allora rispetto a loro non siamo ancora in una dittatura. Ma neppure in una democrazia come siamo soliti pensarla per il solo fatto che periodicamente andiamo a votare, dimenticando il monito del politologo Giovanni Sartori, secondo il quale andare a votare non è ancora un segno compiuto di democrazia, ma solo un modo per eleggere i capi. La democrazia incomincia là dove si cerca di dare a tutti le stesse opportunità per realizzare se stessi e raggiungere gli obiettivi che ci propone. Quindi un aiuto, in termini di assistenza, tempo e denaro, alle donne che desiderano mettere al mondo un figlio, creazione di asili per l’infanzia onde consentire alle mamme di non dover rinunciare al loro lavoro che è anche fonte della loro autonomia. Diritto allo studio con borse che possono consentire anche ai meno abbienti di studiare fino alla laurea. Agenzie del lavoro efficienti che facciano incontrare velocemente domanda e offerta. Riorganizzazione della sanità con riduzione significativa delle liste d’attesa. Assistenza dignitosa e rispettosa ai portatori di handicap, agli anziani, ai folli. Controllo e abolizione delle forme mascherate di schiavismo, come accade agli uomini di colore che raccolgono, per pochi euro giornalieri, frutta e verdura che noi acquistiamo al supermercato, dopo che la filiera ha fatto i suoi lauti guadagni a spesa degli agricoltori e dei raccoglitori. La democrazia prende avvio e si afferma a partire da queste cose e non dal semplice voto che può essere manipolato da una propaganda fallace, ideata apposta per persuadere chi non è in grado di controllare la verità di ciò che si promette. Per cui non è il caso di dire e di ripetere in tutte le trasmissioni televisive che: “il popolo ha sempre ragione”. Perché se è male informato dalla propaganda elettorale, e non ha la minima curiosità di verificare se ciò che gli viene detto e ripetuto è vero o falso, il popolo non ha sempre ragione. Già Platone avvertiva che la democrazia non era praticabile dai sofisti con i loro falsi sillogismi, dai retori che seducevano con la mozione degli affetti, dai demagoghi che esoneravano il popolo da ogni responsabilità perché gli garantivano che ci avrebbero pensato loro. Per questo dei 35 dialoghi di Platone che ci sono pervenuti ben 14 mettono in guardia da errori e sofisti e dalla loro capacità di persuadere senza argomentare. Oggi retori e sofisti vengono ospitati dalla televisione con una frequenza che, come lei dice, è misurata dall’audience e non dalla loro capacità di dire cose vere e sensate. In televisione si procede per slogan, essendo questo messo assolutamente inidoneo al ragionamento. Il timore che la gente si annoi e cambi canale è l’assillo di ogni conduttore che interrompe senza esitazione chi prova ad abbozzare un ragionamento. Va a finire che ha successo chi le spara più grosse alzando la voce e buttando là qualche parola inopportuna. E sempre più rari sono i conduttori che intervengono a far notare che quel che l’ospite sta dicendo non corrisponde a verità. E pur di non interrompere il ritmo e i battimani i conduttori, non tutti, ma molti, rinunciano a esercitare la loro funzione di giornalisti che correggono quanto di palesemente falso o approssimativo l’ospite dice. E anche qui la democrazia soffre nella sequenza delle false notizie o dei ragionamenti incompiuti. Da ultimo, avendo assunto il mercato a misuratore di tutti gli scambi e il denaro a generatore simbolico di tutti i valori, va da sé che la politica non può decidere a prescindere dall’economia. Un’economia a sua volta regolata dalle agenzie di rating. dagli operator finanziari che con un giudizio negativo e con un click possono svalutare i titoli emessi dai governi (democraticamente eletti) che, a questo punto, non rovano più sul mercato acquirenti disposti a comprare i loro titoli, col rischio di non essere più in grado di pagare stipendi e pensioni e con lo spettro del fallimento. In una società globalizzata, dove il mercato è più forte delle decisioni che la politica degli Stati può assumere, la democrazia è ridotta a parola vuota.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 22 settembre 2018 -

venerdì 28 settembre 2018

Speciale: Il Menù del Venerdì!...


Frittelle di Granchio
Per 4 persone

400 gr di polpa di granchio (peso sgocciolato), 2 scalogni, 2 uova, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, 2 cucchiai di maionese, ½ cucchiaino di senape in grani, 3 cucchiai di latte, 80 gr di pane a cassetta, peperoncino piccante, pangrattato, olio, sale.

Spezzettare il pane eliminando la crosta laterale e bagnarlo con il latte. Privare la polpa di granchio dalle cartilagini e tagliarla a grossi pezzi.
Sbucciare gli scalogni e tritarli, unire il prezzemolo e mettere il tutto in una terrina. Unire 1 uovo, la maionese, la senape e un pizzico di sale. Aggiungere la polpa di granchio e il pane strizzato. Mescolare molto bene gli ingredienti.
Dividere il composto formando 8 frittelle e appoggiarle sopra un tagliere, coprirle con pellicola e mettere il tutto in frigorifero per 1 ora.
Poi passare le frittelle nell'uovo rimanente prima battuto con un pizzico di sale e poi passarle nel pangrattato.
Portare a ebollizione in una larga padella abbondante olio e fare friggere le frittelle da entrambe le parti fin che siano dorate. Appoggiarle su carta assorbente da cucina per eliminare l’olio in eccesso. Servirle con la salsa descritta qui di seguito.

Salsa per frittelle di pesce

2 scalogni, 1 cetriolino sottaceto, 1 cucchiaio di capperi sotto sale, 1 cucchiaino di aghi di rosmarino, 3 steli di erba cipollina, 100 gr di yogurt tipo greco, 150 gr di maionese, il succo di 1 limone, 1 cucchiaino di senape in polvere, sale q.b., un pizzico di peperoncino piccante in polvere.
Sbucciare e tritare tutte le verdure. Unire tutti gli altri ingredienti e mescolare con molta cura.

Speciale Zuppa con Pesce
Per 4 persone

300 gr. di cernia in tranci, 200 gr. di rana pescatrice in tranci, 300 gr. di scorfano, 2 triglie da 200 gr. l’una, 20 gamberi, 2 calamari, 2 seppie, 20 vongole, 3 cucchiai di olio, ½ cucchiaio di maggiorana, ½ cucchiaio di timo, un pizzico di peperoncino, 100 gr. di passata di pomodoro, 1 bicchiere di vino, una cipolla, 2 spicchi d’aglio, 7 dl. d’acqua, sale, pepe.

Lavate e pulite le seppie e i calamari, eliminando cartilagini, occhi e beccuccio, oltre la sacca dell’inchiostro e tagliate tutto a pezzi grossi.
Lavate anche le triglie e svisceratele.
Sgusciate i gamberi, incidetene il dorso con un coltellino per eliminare il filamento nero dell’intestino.
Togliete la pelle ai tranci di pesce e tagliateli in pezzi piuttosto grossi. Spazzolate e lavate le cozze e le vongole e fatele aprire a vapore. Tenetele da parte, lasciandole nei gusci.
Affettate la cipolla, tritate l’aglio, unite il peperoncino e fate rosolare tutto a fuoco medio nell’olio. Quando il trito sarà dorato, coprite con 7 dl: d’acqua tiepida e portate a bollore. Unite calamari e seppie, abbassate la fiamma e cuocete per 10 minuti. Bagnate con il vino bianco, unite le erbe, la passata di pomodoro e i tranci di pesce, escluse le triglie. Aspettate 10 minuti, quindi unite le triglie e i gamberi, le cozze, le vongole, sale e pepe. Lasciate sul fuoco per altri 10 minuti per portare a termine la cottura e servite. Che delizia!

Budino di Latte alla Portoghese
Per 6 persone

8 uova, 700 ml di latte, 300 gr di panna liquida, 300 gr di zucchero di canna, la buccia grattugiata di 2 arance non trattate.

In una casseruola portare a ebollizione il latte con la panna. Lasciare raffreddare.
In una ciotola sbattere le uova con 50 gr di zucchero. Aggiungere le uova al composto di latte.
In uno stampo da budini mettere la buccia delle arance sul fondo.
In un padellino fare caramellare lo zucchero rimasto con l’aiuto di un cucchiaio d’acqua. Una volta pronto, versare il caramello e aggiungere la preparazione di latte e uova.
Preriscaldare il forno a 150°. Preparare un contenitore con acqua bollente che possa contenere lo stampo della preparazione e mettete in forno per la cottura a bagnomaria per 60’. Delizioso!

giovedì 27 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Amore senza psiche...


Che la nostra civiltà si stesse avviando verso un’epoca che potremmo definire post-umana ne avevamo sentore prima ancora che facessero la loro comparsa i robot. Ovunque, infatti, e nei posti di lavoro soprattutto, la persona, con i suoi ideali, i suoi progetti, i suoi sogni, i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi amori, non conta nulla. Ciò che conta è solo la sua prestazione che deve essere efficiente e produttiva. Se poi questa prestazione può essere sostituita da un robot che non presenta i problemi che hanno le persone, perché no? Questa è la ragione per cui non mi meraviglio che a Torino si sia aperta una casa di piacere abitata non da prostitute, ma da bambole di gomma. Si fa sesso non più con una donna, ma con una cosa. La prestazione sessuale è del tutto separata dalla persona. E di quella “cosa” si può fare ciò che si vuole, senza obiezioni, senza resistenze, senza implicazioni sentimentali, senza rischi di contrarre malattie, e senza il timore di fare figuracce per episodi d’impotenza o di eiaculazione precoce, con la necessità di dare patetiche e imbarazzanti spiegazioni alla partner. Naturalmente un atto sessuale completamente sganciato da una partecipazione psicologica è un atto impoverito al limite dell’insignificanza, il desiderio sessuale è innanzitutto psichico e approda alla fisicità come compimento di un investimento psichico. Di questo si gode, non tanto dell’atto in sé, soprattutto quando è de-psicologizzato. Ma qui intervengono due fattori che possono spiegare il fenomeno. Il primo è che la nostra cultura ha anticipato di molto l’esercizio della sessualità diventa un gesto senza risonanza psichica, la strada dell’autonomia della sessualità da tutto ciò che mette in gioco la persona è spalancata, e la casa delle bambole è lì apposta per accogliere tutti quelli che hanno ridotto il sesso a un semplice esercizio idraulico. Il secondo fattore è che non sono pochi gli uomini che hanno letteralmente “paura” della sessualità femminile, perché l’organo sessuale femminile è accompagnato dallo sguardo di una donna, da una sua parola, da un suo profumo, da una sua emozione che impegnano, quando addirittura non inquietano il partner. Io penso che la casa delle bambole sia stata ideata per coloro la cui sessualità è completamente e definitivamente sganciata da risonanze psichiche, e per coloro che hanno paura della sessualità femminile in carne e ossa. E allora ben vengano le bambole, non impegnano la psiche del cliente e non fanno paura.
Umberto Galimberti - Reportage – Donna di La Repubblica -22 settembre 2018 -

mercoledì 26 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Il Fascino delle scarpette rosse di Judy...


Dopo Quasi Ottant'anni di cammino e tredici anni dispersi nel nulla, le scarpette rosse più amare d’America sono finalmente tornare a casa, nel museo al quale appartengono. Sono le scarpette con lustrini e mezzi tacchi indossate da Judy Garland nel Mago d Oz, il film del 1939 che ancora oggi vedo le mie nipotine guardare con la bocca aperta. Ma ha dovuto muoversi addirittura l’Fbi per arrivare, ancora non sappiamo come, a colui, o coloro, che le avevano portate via dal Judy Garland Museum nel Minnesota, dove il proprietario, un collezionista privato, le aveva esposte. Chiunque abbia visto quel film – o rivisto, o trivisto, se ha bambini in casa – sa bene che le scarpette con i lustrini rossi di Dorothy, la protagonista, sono magiche. Battendo fra loro i tacchetti tre volte, ritrovano la strada di casa e tutto finisce bene. Ma se quella magia è solo fiaba, il sortilegio reale è che i memorabilia, i ricordi e gli oggetti usati nel mondo dello spettacolo o dello sport sono diventati una colossale realtà che produce milioni di dollari. I prop, così si chiamano, sono all’incrocio tra il feticismo e la speculazione. Le scarpette di Dorothy-Judy Garland, molto ma assai meno dei quattro milioni e mezzo pagati per l’uniforme appartenuta nel 1920 al più venerato giocatore di baseball, Babe Ruth. I magazzini nei quali gli studi trasportano il materiale di produzione diventano forzieri e, come tutti i forzieri che si rispettino, vengono scassinati. In febbraio, due rapinatori hanno svuotato in California il deposito della Marvel, la casa editrice di fumetti oggi divenuti film di supereroi. Hanno portato via gli scudi usati da Robert Downey Jr. in Iron Man e quelli realizzati per Captain America, un bottino valutato mezzo milione di dollari. La casa di uno degli ex direttori della Lucasfilm, produttrice di Guerre Stellari in cui il proprietario teneva una piccola collezione di oggetti, come la pistola di plastica e cartone impugnata da Harrison Ford-Han Solo, è stata svaligiata. I ladri hanno ignorato quadri, gioielli, orologi in favore di quel gadget per cui i mercanti di souvenir hollywoodiani avevano offerto 300mila dollari. Altrettanti ne vale la tuta speciale indossata da Sigourney Weaver in guerra contro Alien, assai più dei miseri 49mila della calzamaglia di Superman che fasciava Christopher Reeve nel 1983. E tutta la paccottiglia utilizzata per i telefilm e poi il film di Star Trek batte record dopo record alle aste. Possedere il frammento di un film famoso, toccare con le proprie mani la casacca indossata dal campione è naturalmente molto più di un semplice, seppure costosissimo, souvenir. È il sentirsi non più spettatori, bensì attori nella commedia dei sogni di gloria o di avventura, per rivivere l’eterna giovinezza dell’immaginazione. Non importa se il modello della prima Enterprise, l’astronave usata nella serie tv Star Trek, sia un ingombrante cassone di legno e plastica lungo tre metri, con gli oblò illuminati all’interno da pisellini luminosi, come quelli usati per gli alberi di Natale. Neppure mi scandalizzo troppo ricordando come, per anni, avessi conservato gelosamente non soltanto il biglietto di ingresso a San Siro, ma anche quello del tram preso per raggiungere il luogo di una memorabile vittoria della mia squadra in un derby decisivo. Oggetti che sicuramente oggi varrebbero milioni. Nei troppi traslochi della mia vita, purtroppo li ho persi. Ecco perché ora, alla mia età, ancora devo scrivere per campare.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 22 settembre 2018 -

martedì 25 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Poesie senza rima nel caos della vita...


Nella storia della letteratura, da quando l’uomo cominciò a decidere e a descrivere i fatti, i sentimenti, gli istinti e insomma la propria interiorità e quella degli altri da lui interpretata, ci fu una distinta formula: il poema e la poesia. Del resto analoghe distinzioni avvenivano anche n altre arti. Per esempio nella pittura, tra il disegno, il quadro dipinto su tela, l’affresco dipinto su muro. La musica: quella sinfonica, quella operistica e quella della danza e del ballo. Sono distinzioni profonde: gli strumenti adoperati sono quasi sempre gli stessi, ma nelle opere che da essi, derivano sono profondamente diverse. O almeno, così pare a me. Quindi poema e poesia. Prendete Omero, tanto per cominciare dall’antico: Omero chiunque fosse (o fossero) scrisse solo poemi: l’Iliade e l’Odissea sono poemi, raccontano in versi quanto è avvenuto e quanto l’autore ha inventato. Il poema è composto da versi, rime, sillabe, ma è la storia di alcuni personaggi. Un esempio più moderato di Omero e quasi moderno (visse ottocento anni fa) è stato Dante con la sua “Divina Commedia”: altri poemi non scrisse, ma poesie sì, molte; non raccontavano fatti ma sentimenti. Cavalcanti, amico di Dante, scrisse molte e molto belle poesie, ma non poemi. Ariosto solo poemi. Shakespeare drammi teatrali, ma anche poesie (Sonetti). E per venire al moderno, in Italia Leopardi scrisse solo poesie (La Ginestra non è un poema). D’Annunzio scrisse poemi e poesie. Montale soltanto poesie. Prima ho accennato anche alla musica e alla pittura, ma non mi dilungo: anche lì le varie forme sono distinte tra loro, più dalle diverse tecniche che dai contenuti. Col passare del tempo e arrivare all’oggi, il poema non è più di moda. In Itala l’ultimo fu D’Annunzio ma i suoi poemi sono soltanto romanzi in prosa, raccontati in versi. Oggi la letteratura poetica è soltanto fatta di poesie. I poemi sono di fatto scomparsi perché il romanzo ne ha preso il posto, soprattutto in Occidente. Con Rossini, con Verdi, con Puccini, domina il melodramma, ma questa è musica e non racconto in prosa. Dunque il poema non c’è più, almeno nell’Occidente. Resta la poesia, anzi tende ad aumentare. Naturalmente quella moderna non è la stessa di quella antica. Per esempio è assai più libera dal punto di vista della metrica e della rima. Come mai? E con quali risultati? La rima c’è ancora ed anche la metrica, ma sono usate in modo completamente diverso da quanto avveniva una quarantina di anni fa. Un tempo (non lontanissimo) la rima chiudeva con il verso in vari modi e intervalli; era cioè legata alla metrica: endecasillabi, settenari, dodecasillabi, quinari e così via. Rime alterne o rime baciate, come allora si diceva. Oggi non è più così La metrica in una poesia di oggi cambia di verso in verso: può cominciare con un settenario per passare all’endecasillabo, un quinario e via così. Tuttavia i versi sono stesi anche senza rime, il numero delle loro sillabe deve avere una sua musicalità. La rima del canto
 Suo non c’è più o quasi. Assai raramente è posta a fine verso; e si appoggia a rime che stanno alla fine di un paio di versi precedenti anch’esse alla metà degli stessi. Ma anche questo nuovo modo di maneggiare la tecnica poetica non è affatto sgradevole: la metrica è libera ma c’è; la rima è anch’essa libera come appoggiarsi nel verso ma può anche non esserci affatto. Questa rivoluzione, chiamiamola così, non è avvenuta soltanto nella poesia, ma anche nella musica sinfonica, dove le dissonanze hanno di fatto abolito le consonanze e i tempi hanno sancito la propria regolarità e si alternano come l’autore sente necessario. Non parlo della pittura, dove gli schizzi di colore sulla tela o sulla parete vengono lasciati come sono oppure manomessi e trasformati in fasce o sgorbi voluti e pensati, che dimostrano di solito le capacità espressive del pittore ma talvolta, o addirittura spesso la sua pittorica incapacità. Insomma il mondo delle arti, è profondamente cambiato. Esprime sentimenti che vorrebbero essere intensi e spesso lo sono ma non mancano i casi nei quali non esercitano alcuna influenza su chi li guarda e neppure – a volte – su chi li ha prodotti in modo meccanico ed inutile. La verità è che spesso l’ispirazione non è stata altro che confusione. Mi permetto di aggiungere che questa dominanza della confusione sta stravolgendo anche la vita pubblica e l’umanità in genere. Il motto che è stato proprio della mia generazione fu: “Libertà, eguaglianza, fraternità”. Quello che può adottare la generazione attuale poiché ne riflette la sostanziale psicologia potrebbe essere: “Vita libera, libera socialità, libero amore e libero potere”. Non so se piace, ma certo è rappresentativo della società attuale. Rifiutarlo è inutile, la vita va come va. Il vero responsabile è l’Io, l’elemento psicologico che distingue la nostra specie dalle altre specie animali. Attenzione però: se cambia l’Io cambia anche la specie e ne nasce un’altra.
Eugenio Scalfari – Il Vetro Soffiato – L’Espresso – 23 settembre 2018 -

lunedì 24 settembre 2018

Speciale: Di tutto un pò!...


Frittelle di Radicchio
Per 4 persone

4 cespi di radicchio di Treviso, 150 gr di farina, 2 dl di birra chiara, un uovo, olio, sale.

Mettete la farina in una terrina. Diluitela con la birra fino ad ottenere una pastella omogenea. Aggiungete 1 tuorlo d’uovo e mescolate. Coprite la terrina con della pellicola e lasciatela riposare per ½ ora.
Pulite il radicchio, eliminate parte del fondo, mantenendo le foglie del cespo unito. Dividetelo in 8 spicchi.
Montate l’albume a neve e aggiungetelo alla pastella, mescolando dall’alto verso il basso.
Bagnate nella pastella gli spicchi di radicchio e lasciateli a inzuppare per 10 minuti, in modo che si imbevano bene.
Scaldare l’olio in una padella e friggervi il radicchio da tutte e due le parti, fin che l’uovo esterno sia dorato (circa 5 minuti). Scolarle e fare assorbire l’olio in eccesso su carta assorbente. Salarle e servirle calde.


Minestra di Zucca e Patate

Per 4 persone

350 gr di zucca già pulita, 3 patate, 1 cipolla, 1 pomodoro maturo pelato e ridoto a tocchettini, una costa di sedano, 2 foglie di salvia, un rametto di maggiorana, 1 peperoncino dolce, 100 gr di ditalini rigati, parmigiano grattugiato olio evo, sale, pepe. (a piacere un pizzico di peperoncino secco).

Pulire e lavare le verdure. Tagliare le patate e la zucca a tocchetti.
Tritare la costa di sedano e la cipolla e farli rosolare in una casseruola con 3 cucchiai d’olio e i tocchettini di pomodoro, il peperoncino verde tagliato finemente.
Aggiungere le patate e la zucca, mescolare e fare insaporire per qualche minuto. Unire le erbe aromatiche legate con un filo. Coprire con un lt. di acqua calda leggermente salato (o ancor meglio con del brodo vegetale caldo).
Abbassare la fiamma e proseguire la cottura per 20 minuti.
Nel mentre in una pentola con acqua salata in ebollizione far cuocere i ditalini e scolarli al dente. Versarli nella minestra, continuare a mescolare, proseguendo la cottura per pochi minuti.
Servire il piatto caldo, spolverando con parmigiano, pepe e a piacere un po’ di peperoncino rosso.


Cosce di Pollo alle Prugne
Per 4 persone

4 cosce di pollo, 16 prugne secche, 2 bustine di zafferano, 1 pezzetto di cannella, 1 cipolla, 2 cucchiai di miele di acacia, olio, sale, pepe nero.

Fare rinvenire le prugne in acqua tiepida.
Lavare e asciugare con cura le cosce di pollo, senza spellarle.
Pulire e tagliare finemente la cipolla. Farla rosolare in un tegame con 3 cucchiai d’olio, unire le cosce di pollo e farle dorare da entrambe le parti. Spolverare con un pizzico generoso di pepe nero, 2 bicchieri di acqua tiepida in cui avrete sciolto le bustine di zafferano. Portare a cottura, per circa 20 minuti. Regolare di sale.
Nel mentre, in un padellino col miele e la cannella, fare soffriggere dolcemente per pochi minuti, le prugne, scolate e asciugate. Versare il tutto sulle cosce di pollo e servire.

Crumble di Pere
Per 6 persone

10 pere mature ma dure, 40 gr di burro, 40 gr di cioccolato amaro a scagliette. Per la copertura: 60 gr di farina, 90 gr di amaretti morbidi sbriciolati, 60 gr di cioccolato amaro grattugiato, 80 gr di burro, sale.

Lavare e pelare le pere. Tagliarle a metà, togliere il torsolo e ridurle a fette spesse. Metterle in una padella con 40 gr di burro fuso caldo e farle dorare, girandole da tutte le parti e verso fine cottura, aggiungere il cioccolato a scagliette, mescolare.
Imburrare con 10 gr di burro una pirofila possibilmente rotonda e non molto grande. Versarvi tutto il contenuto della padella.
Preparare la copertura: in una terrina mettete la farina, gli amaretti sbriciolati, il cioccolato grattugiato, 70 gr di burro ammorbidito a dadini e un pizzico di sale. Lavorate gli ingredienti con la punta delle dita per ottenere una pasta granulare. Ricoprire le pere con l’impasto preparato.
Infornare la preparazione a forno preriscaldato a 200° per 30 minuti. Se durante la cottura la preparazione colorisse troppo, coprirla con carta argentata e abbassare la temperatura a 190°. Una vera delizia!

domenica 23 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Il vecchio e il mare, l'ultima volta con l'ambulanza sulla spiaggia...


L’ ambulanza, partita da Carrara è diretta a Ivrea. A bordo c’è un uomo di ottantotto anni, costretto a lasciare i suoi luoghi per essere ricoverato in un ospedale che non sia troppo distante dalla zona in cui vivono i figli. Ai volontari che lo accompagnano, l’anziano malato fa una richiesta inattesa. Vorrebbe fare una breve sosta. Prima di lasciarsi alle spalle Marina di Carrara, gli piacerebbe vedere il mare per qualche minuto, ancora una volta. Forse l’ultima, dice il figlio nel post con cui ringrazia chi ha esaudito quel desiderio. Lui li chiama i quattro angeli. Tiziana, Debby, Maurizio e Alessandro; loro dicono che non è niente, è solo un piccolo gesto. Eccolo lì, il signor Gianfredi, con l’erogatore nasale per l’ossigeno, distesa sulla sua barella rivolta verso il mare. È una giornata limpida di fine estate. Nella fotografia si intravede, al limite della spiaggia sassosa, qualcuno che azzarda un bagno di settembre. È un’immagine che lascia interdetti per qualche istante, poi commossi. Non ha bisogno di didascalie, parla come parla la vita, trasparente, universale, indica l’appuntamento inevitabile? No, non è questo, non solo. C’entra ciò che sta nei pressi del traguardo – la manciata di attimi che, senza poterli contare, ce ne separano; e comunque, la possibilità di rubare, portare via con noi qualcosa. Ma cosa? Non è un trasloco, la lista è necessariamente corta. Non funziona nemmeno come un generico “before I die” – un progetto di arte diffusa chiamato proprio così ha tradotto la lista dei desideri in pareti su cui scrivere, e condividere. Se c’entrano i desideri, e forse sì, ecco, c’entra l’ultimo. Che cosa dunque? Una sigaretta, un tramonto, un bicchiere di vino, un bacio. Un quadro di Rembrandt. Una canzone. Un posto in cui tornare. Oppure una cosa ancora più semplice, una cosa da niente un frullato al gusto di moka che fanno in un bar della città in cui sei nato. L’anno scorso, Emily, cinquant’anni, ricoverata a Washington per un tumore al pancreas, ha chiesto di poter avere ancora una volta, sulla lingua, il sapore di quel frullato. È stata accontentata. E chissà quanta vita c’è dentro un frullato, quanta, e come bevendolo – col traguardo come una finestra murata al capo del letto. può sembrare di riaverne insieme tutti i sapori. La solita terribile storia è che non ci appartiene niente, non possiamo tenere né trattenere niente. Ecco ciò che devi amare e sapere, ha scritto il filosofo Jean-Luc Nancy. E se ci è dato il tempo di un’ultima richiesta, è dura scegliere tra le infinite, bellissime cose da niente di cui è fatta una giornata non memorabile. In Australia una squadra di volontari si offre a persone malate con lo stesso programmatico slancio dei volontari della Croce Rossa di Ivrea. Nessun sforzo, nessun dono materiale. Sono – sempre che il tempo lo conceda. Assistenti, accompagnatori, complici di una piccola e decisiva, preziosissima illusione. Provano a bloccare gli orologi: attimo fermati, sei bello! E facendolo per il signor Gianfredi, consentendogli di portarsi appresso, in un tratto di vita faticosa, ancora un lampo di bellezza, ancora il bagliore del suo mare sulla retina, lo fanno pure per noi. O quantomeno – mettendoci davanti alla loro premura generosa – ci spingono, che so, a fare un po' più profondo un respiro: davanti al solito tramonto, alla miracolosa stranezza di essere vivi. A sentire con più concentrazione il sapore del frullato domattina, il bicchiere di vino stasera; a fissare più a lungo possibile il lungomare di Marina di Carrara, e qualunque lungomare lungomare - come se fosse sempre l’ultima volta, come se fosse sempre la prima.
Paolo Di Paolo – La storia/1 – Il desiderio di un anziano – La Repubblica – 23 settembre 2018

sabato 22 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Esiste l'anima?....


Nel Fare Un’Analisi storica della dialettica Anima-Corpo mi sembra che si stia abbandonando l’idea dell’Anima! Me lo conferma un sacerdote che mi ha detto che oggi discuterne è un non senso perché l’anima non esiste più! Rivelazioni dal confessionale? Sarebbe il caso di credere al sacerdote, visto come la fede cristiana è traballante Già Freud, penetrando nelle profondità del corpo alla scoperta dell’inconscio, aveva praticamente ignorato l’idea junghiana della “realtà dell’Anima”! Insomma una completa vittoria del Corpo sul grigio sfondo della religiosità che si dissolve.   L. Cairati

Sa Che Le Dico: che la religiosità non si dissolve perché oggi ci si occupa più del corpo che dell’anima. E aggiungo che: se neghiamo la realtà dell’anima forse riusciamo a raggiungere la nostra “interiorità”, che non è una realtà come si crede sia l’anima, ma una riflessione su di sé e sul nostro modo di essere al mondo. Occuparsi di sé, anziché fuggire da sé come dal peggior nemico, è forse la strada più idonea per recuperare etica e valori, un tempo affidati alla cura dell’anima attraverso l’osservanza di una precettistica esterna mai interiorizzata e quindi fatta nostra. “Anima”, inadatti, come da anni vado scrivendo, è una parola che la tradizione ha reso venerabile: immortale nel linguaggio religioso, evocativa in quello dei poeti, fondamentale in quello psicologico che senza l’anima non saprebbe di che cosa occuparsi, essenziale nelle cose d’amore, dove nessuno vuole essere amato solo per le fattezze del proprio corpo. Eppure a questa parola non corrisponde assolutamente nulla. Se L’anima non esiste, esiste però “l’idea di anima”. E qui dobbiamo persuaderci che non è interessante sapere se un’idea è vera o falsa, ma se ha fatto o non ha fatto storia per tutto il tempo in cui è stata creduta vera. E la storia, come si sa, è più decisiva per la nostra vita di quanto non sia la logica che discetta sul vero e sul falso. La nozione di anima non è nata nella tradizione giudaico-cristiana, ma nella cultura greca a opera di Platone che, nell’intento di giungere a un sapere universale e valido per tutti (condizione essenziale per un sapere scientifico), ritenne che non ci si poteva affidare alle sensazioni corporee che sono diverse da individuo a individuo, ma era necessario operare con idee, numeri, misure, oggi diremmo con costrutti  mentali, di cui l’anima era depositaria per averli conosciuti un giorno in un cielo sopra il cielo (iperuranio). La tradizione giudaica non disponeva della nozione di “anima”, e ancora meno quella cristiana che ha il suo fondamento nell’incarnazione, nel farsi carne della Parola (Et Verbum caro factum est – dice Giovanni nel suo Vangelo). E i cristiani, nel loro atto di fede, il Credo, non dicono di credere, nell’immortalità dell’anima, ma nella risurrezione dei corpi. Fu Agostino a prelevare da Platone la parola “anima” – sottraendola allo scenario in cui Platone l’aveva collocata per risolvere i problemi della conoscenza – per inserirla nello ”scenario della salvezza”, inaugurando in tal modo il tratto tipico dell’antropologia occidentale che pensa l’uomo diviso in anima e corpo. Un corpo, corruttibile e perituro e un’anima incorruttibile e immortale. Con Cartesio il dualismo psico-fisico si ripropone con la distinzione di res cogitans e res extensa, dove il corpo non è come noi lo viviamo nel mondo della vita, ma come risulta dall’esame condotto con le idee chiare e distinte che all’epoca di Cartesio, erano quelle della fisica, e poi della chimica, oggi della biochimica e infine della genetica. Così separate le competenze, dell’anima si occuperà la religione e successivamente la psicologia, mentre del corpo si occuperà la scienza medica dopo averlo ridotto a “organismo”. Per poter operare la medicina ha bisogno di ridurre il corpo che io vivi e che coincide con la mia soggettività, a un oggetto osservato dalle categorie che presiedono il sapere biochimico e genetico. Non si tratta di due realtà, ma di due modi di considerare il corpo come corpo vivente sollecitato dagli stimoli che provengono dal mondo e impegnano in un mondo, e come corpo fisico che, come tutti gli oggetti, è semplicemente nel mondo senza avere un mondo. Approfondendo questa distinzione la fenomenologia e la psichiatria fenomenologica hanno sostituito al paradigma anima-corpo su cui si è articolato tutto il discorso religioso e psicologico, con il paradigma corpo-mondo, dove per corpo non si deve intendere l’organismo visualizzato dalla scienza, ma il proprio corpo vivente che è al mondo non come una cosa, ma come colui che dischiude intorno a sé un mondo. E se proprio siamo affezionati alla parola “anima”, ebbene chi non ne può fare a meno la mantenga pensando con questo termine non a una realtà ma alla relazione che un corpo vivente (quindi “animato” e non un cadavere) ha con il mondo.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 15 settembre 2018 -

venerdì 21 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Leonardo che (ancora) ci fa grandi nel mondo...


In Quest’Epoca in cui l’autostima degli italiani è ai minimi storci, una terapia la sperimenta mio figlio. Si chiama Leonardo da Vinci. Pronuncia quel nome, e girerai il mondo. Quando dici Italia, per nostra fortuna, la quasi totalità degli americani e dei cinesi, dei russi e degli indiani, degli scandinavi e dei brasiliani, non pensa ad altro: scatta l’associazione d’idee coi grandi del Rinascimento, la nostra arte, il paesaggio, la qualità della vita, il cibo e la moda, il design, la musica lirica. E’ un’esperienza che Iacopo e tutta la famiglia Rampini hanno immagazzinato in una vita di espatriati, nomadi globali. Appena ti presenti come italiano, sul volto dello straniero si accende una luce, un’ammirazione immediata. Non ce lo meritiamo, ma la storia ci ha fatti nascere sulle spalle di giganti. Il gigante Leonardo sta facendo viaggiare Jacopo ancora più del normale. Da attore trilingue, Iacopo è già abituato a destreggiarsi tra impegni di lavoro a New York, Parigi, Roma e Miano. Un attore giovane deve fare di tutto: teatro e tv, film e cortometraggi, pubblicità e doppiaggi, audiolibri. Il networking sui social media aggiunge una dimensione nuova per la sua generazione: mentre stava lavorando in Italia, essendo già “così vicino”, Jacopo è stato ingaggiato da un regista per girare un film in Norvegia. Evviva i voli low cost. Ma il suo pendolarismo abituale è stato amplificato da Leonardo. Per merito di un progetto teatrale di Massimiliano Finazzer Flory, che ne cura la regia ed è l’interprete principale. L’idea è semplice: far parlare Leonardo da Vinci per raccontare al pubblico di oggi la straordinaria versatilità del genio. Troppi lo conoscevano “solo” come l’autore della Gioconda (perché vanno a farsi selfie al Louvre) o del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie a Milano. Ma come insegna il museo della Scienza e della tecnologia a lui dedicato, sempre a Milano, Leonardo fu matematico e inventore, scrittore e drammaturgo, scultore e studioso dell’anatomia. Le sue “macchine” ebbero un uso teatrale, o servirono a fare la guerra (ahimè sì, anche ai suoi tempi come nella Silicon Valley di oggi, uno dei grandi committenti per la ricerca scientifica è l’esercito). Fu architetto e urbanista, alcuni canali portano la sua firma. Un genio così straripante, ce lo contendono. Tuttora mi capita di litigare con amici francesi, aggrappati alla certezza che lui fosse uno di loro solo perché ebbe la sorte di tanti nostri talenti in fuga: all’estero trovò più fondi e meno litigiosità. Finazzer ha avuto l’idea di condensare la storia in Essere Leonardo da Vinci: intervista impassibile, formula contemporanea che è un artificio teatrale. Jacopo recita la parte del giornalista. Le domande servono ad esplorare il personaggio in chiave divulgativa, ma usando parole testuali di Leonardo. L’anno prossimo lo spettacolo è un cartellone al Piccolo Teatro di Milano, ma molto prima di quell’appuntamento avrà girato il mondo. Le tournée sono vorticose. I Estremo Oriente questa Intervista è stata a Hong Kong, Singapore, Bangkok e Giacarta. L’ultima tappa europea che ricordo è Copenaghen. Negli Stati Uniti l’hanno già vista a New York, Los Angeles e Miami. I francesi – ancora loro – hanno voluto sostenere la versione cinematografica, offrendo generosa ospitalità logistica purché si mettano in bella mostra i paesaggi leonardiani di Amboise (dove passò gli ultimi anni della sua vita, accolto dal mecenate Francesco I). Ci sono trattative per una tournée nel Golfo Persico. La prima del film potrebbe esordire alla Morgan Library di New York. Che fortuna abbiamo noi italiani, a poter dire con leggerezza tra tanti nostri difetti, da qualche parte nel nostro albero genealogico si affaccia quel signore là.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica - 15 settembre 2018 -

giovedì 20 settembre 2018

Speciale: Giovedì tutto "dolce"!...


Torta di Mele “rovesciata”
Per 6 persone

6 mele del tipo Golden, 100 gr di burro, 120 gr di zucchero di canna, 2 dl di panna, il succo di 1 limone, 350 gr di farina, 160 gr di burro, 30 gr di zucchero semolato, sale. (se si desidera panna montata per accompagnare)

Per preparare la pasta: mettere in una ciotola 160 gr di burro a dadini e farlo ammorbidire a temperatura ambiente. Mettere in una terrina gr 320 di farina a fontana e nel centro il burro ammorbidito, 30 gr di zucchero semolato, 3 cucchiai d’acqua fredda e un pizzico di sale.
Lavorare velocemente l’impasto sin che diventi liscio e omogeneo. Farne una palla, coprire con pellicola e lasciare riposare al fresco per ½ ora.
Lavare e pelare le mele. Tagliarle a metà, togliere il torsolo interno e ridurle a fette sottili, irrorarle in una ciotola con succo del limone.
Mettere uno spargi fiamma sul fuoco e posarvi una tortiera rotonda con 100 gr di burro, anche questo prima ammorbidito a temperatura ambiente. Quando sarà fuso, aggiungere 120 gr di zucchero di canna e farlo caramellare a fuoco vivo, mescolando con un cucchiaio di legno. Aggiungere le fette di mele e farle insaporire nel caramello per 5 minuti. Distribuirle tutte coprendo uniformemente il fondo della teglia.
Su di un piano di lavoro leggermente infarinato, stendere la pasta ad uno spessore di circa 1 cm, adagiarla sulle mele della tortiera coprendole e premendola delicatamente fatela rimboccare lungo i bordi sino a racchiudere dentro il composto della tortiera. Bucare con i rebbi di una forchetta la pasta in superficie.
Mettere la tortiera in forno preriscaldato a 180° per 30 minuti. Sfornarla e capovolgerla su di un piatto di portata. Lasciare intiepidire e servire.
Può essere servita accompagnata da panna montata.

Torta di Pere e Amaretti
Per 6 persone

1 kg di pere passa crassana o simili, 400 gr di amaretti duri, 150 gr di panna liquida. 150 gr di zucchero semolato, 150 gr di cioccolato fondente, 3 uova, la scorza di un’arancia biologica, 1 bicchierino di Grand Marnier (o Marsala), burro.

Grattugiare il cioccolato. Sbriciolare finemente gli amaretti. Lavare e sbucciare le pere, eliminandone il torsolo interno. Ridurle a tocchetti e farle cuocere in una casseruola con 3 cucchiai di acqua e lo zucchero a fuoco dolce, mescolando ogni tanto.
Cuocere per circa 15 minuti e comunque sin che siano ben morbide. Frullare il tutto e mettere in una terrina. Aggiungervi le uova leggermente battute, gli amaretti sbriciolati e il cioccolato grattugiato, il liquore e la scorza dell’arancia. Amalgamare con cura gli ingredienti.
Ungere col burro una pirofila rotonda di circa 23 cm di diametro e versarvi il composto preparato. Mettere in forno preriscaldato a 180° per circa 45 minuti. Per verificare la cottura della torta, infilare nella torta uno stecchino che dovrà risultare asciutto, diversamente proseguire ancora la cottura per 10 minuti.
Sfornare, lasciare raffreddare e sformare la torta su un piatto di portata.

Crema Zabaione in coppe
Per 4 persone

2 tuorli, Marsala, gr 250 di panna fresca, 150 gr di cioccolato fondente, 50 gr di zucchero semolato, zucchero a velo, biscottini secchi.

Versate i tuorli in una casseruola con lo zucchero semolato e montateli con una frusta, tenendo la casseruola su fuoco dolce a bagnomaria. Appena il composto sarà denso e cremoso (non deve sobollire), aggiungete ½ bicchiere di Marsala, sempre sbattendo ancora per circa 10 minuti. Il composto dovrà risultare soffice e cremoso.
Montate la panna molto fredda, con un cucchiaio di zucchero a velo.
Fate fondere il cioccolato spezzettato in una piccola casseruola, con 1 cucchiaio di acqua. Dividetelo in 4 coppe da portata, versate lo zabaione. Guarnite con biscottini secchi e con la panna. Una delizia!

Crema guarnita: dolce al cucchiaio
Per 6 persone

200 gr di cioccolato fondente, 30 gr di cacao, 100 gr di burro, 80 gr di zucchero, 30 gr di farina, 3 dl di latte, 4 dl di panna, 100 gr di amaretti, 40 gr di mandorle, 100 gr di pesche sciroppate, 1 bustina di vanillina.

Setacciate la farina e mescolatela in una ciotola con il cacao, tritate finemente le mandorle spezzettate grossolanamente il cioccolato.
Fate fondere il burro in un tegame a fuoco lento, aggiungete il cioccolato e fatelo sciogliere lentamente mescolando spesso con un cucchiaio di legno.
Mettete da parte 10 amaretti, sbriciolate gli altri e aggiungeteli al composto con la farina e il cacao. Amalgamate con cura. Unite le mandorle tritate, lo zucchero, la vanillina e mescolate fino a quando sarà omogenea.
Scaldate il latte senza farlo bollire, versate sul composto preparato, mescolate e fate cuocere a fuoco lento fino a quando la crema si addensa. Lasciate raffreddare.
Montate la panna molto soda e incorporatela delicatamente al composto usando la frusta con un movimento regolare dall’alto verso il basso. Versate la crema nel contenitore di portata, chiudete con pellicola e fate raffreddare in frigorifero per 2 ore. Scolate e asciugate le pesche poi affettatele a spicchi e 5 minuti prima di servire decorate con gli amaretti interi, alternati alle pesche.

mercoledì 19 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Il Grande Reporter al 75 per cento...


Un giornalista rispettabile non dovrebbe mai scrivere più del settantacinque per cento di quel che sa. È quel che pensava e praticava Henry Tanner. All’accusa di autocensura reagiva con ironia. Non si trattava di omettere qualcosa per opportunità ma di non esibire troppo le proprie conoscenze, autentiche o spacciate per tal, di non dar da intendere di sapere più di quel che si sa. Nella politica, nella cultura, nella storia ma anche nella cronaca. Henry Tanner è morto vent’anni fa, quando stava per compierne ottanta. Il suo cuore ha ceduto a Lisieux, in Francia, nel 1998. Era nato a Berna nel 1918. Venuto al mondo svizzero, è morto americano, con alle spalle una vita di giornalista esemplare. Rifiutò il Pulitzer perché doveva condividerlo con un collega di cui non approvava il comportamento.  Nel dopoguerra, avventurandosi negli Stati Uniti, ha lavorato come fattorino nei giornali. Poi è stato editorialista di politica estera nel Texas (all’Houston Post); redattore nell’ufficio del New York Times a Washington al tempo di Kennedy; corrispondente dalle Nazioni Unte; inviato speciale nella guerra d’Algeria; capo dell’ufficio di Parigi durante il maggio ’68; e, sempre per il New York Times, corrispondente da Mosca; e a lungo dal Cairo durante le guerre arabo-israeliane; e infine da Roma. Conosceva almeno sei lingue. La sua esperienza giornalistica giovanile in Europa era stata intensa: aveva lavorato per l’agenzia americana United Press seguendo i partigiani di Tito in Jugoslavia e poi nella Trieste contesa. Aveva seguito la guerra civile greca per Life, e il referendum italiano che condusse alla proclamazione della nostra Repubblica. Ho incontrato per la prima volta Henry Tanner in Congo durante la crisi dell’indipendenza all’inizio degli anni Sessanta. L’ex colonia belga era un fronte non tanto secondario della “guerra fredda”. Americani e sovietici si contendevano il controllo delle ricchezze minerarie di quel paese, che aveva fornito l’uranio per le prime bombe atomiche. Un giorno ci trovammo per caso vicini su un aereo che volava da Leopodville a Elisabethville. Io picchiavo freneticamente sui tasti della mia Olivetti. Lui mi chiese cosa stessi scrivendo con tanto slancio. Non sapeva che gli americani avevano creato una campagna internazionale alla quale il primo ministro Patrice Lumumba aveva affidato il compito di sfruttare le miniere del Congo indipendente? L’annuncio era stato fatto dallo stesso Lumumba poco prima che il nostro aereo decollasse. Così gli americani si erano impossessati della ricchezza dell’ex colonia belga. Henry scoppiò in una risata: mi raccontò che poco prima della nostra partenza l’ambasciatore degli Stati Uniti aveva rivelato che chi aveva concluso l’accordo con Patrice Lumumba era un noto truffatore internazionale. Un americano. Era stata una truffa e al tempo stesso una farsa. Sull’aereo che ci portava nel Katanga, dovetti cambiare versione: non scrissi più di un grande avvenimento internazionale, ma feci la cronaca di un imbroglio. Così cominciò l’amicizia con Henry. Un’amicizia diventata fraterna. Con lui avrei lavorato in tanti paesi, dal Cairo all’Algeria, al Libano, alla Francia. Ed è proprio in Libano che mi dette una di quel che significava il suo “75 per cento”. Un giorno, durante la guerra civile, Henry Tanner era sull’automobile di Edouard Saab, direttore del quotidiano libanese “Le Jour”. Eduard, un maronita nato a Latakie, in Siria, era un amico comune, di Henry e mio. Guidava attraversando una zona di Beirut contesa da gruppi cristiani e musulmani, quando un proiettile sparato non si sa da chi mandò in frantumi il parabrezza. E fulminò Edouard che si accasciò, morto, sul volante. Investito dal pulviscolo di schegge di vetro, Henry cercò di impadronirsi del volante. Poi, per ore, in mezzo a una sparatoria, sull’automobile finita in un fosso dopo avere urtato un albero, cercò di proteggere il corpo di Edouard. Quella sera stessa il New York Times ricevette la puntuale corrispondenza di Henry Tanner che raccontava l’uccisione di Edouard Saab. Nell’articolo non si accennava al fatto che lui era al suo fianco. Così Henry Tanner, non parlando della sua presenza in quel tragico episodio, quindi neppure delle sue ferite, della sua faccia insanguinata, aveva rispettato la regola del “75 per cento”. Non aveva esibito la sua condotta. Henry era per me unico del genere. Lo è rimasto vent’anni dopo. Dovevo ricordarlo.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 16 settembre 2018

martedì 18 settembre 2018

Lo Sapevate Che: Ecco perchè hanno pure il telefonino...


Ascoltare le testimonianze di chi arriva in Italia dalla Libia è devastante, ma fino a quando ci sarà chi queste testimonianze le raccoglie, io sentirò il dovere di diffonderle. Mahdi è un profugo eritreo di 26 anni arrivato in Italia sulla Diciotti. Mahdi racconta ad Andrea Billau, giornalista di Radio Radicale, la sua odissea dall’Eritrea all’Italia. Andate poi a recuperare l’intervista: dopo averla ascoltata non sarete più le stesse persone. Non potrete più esserlo. Dopo averla ascoltata potrete spiegare, a chi non ne ha idea, cosa sono costretti a vivere decine di migliaia di persone, uomini e donne, che chiedono solo questo vivere in pace. Dall’Eritrea all’Italia, passando per l’Etiopia, il Sudan e la Libia, Mahdi ha impiegato quattro anni. Mahdi parte senza sapere cosa lo aspetta, lascia l’Eritrea credendola una scelta obbligata. Le famiglie non riescono a fermare chi decide di andar via perché sanno che in patria non si vive, si sopravvive. Lungo il tragitto, di centri
di accoglienza Mahdi ne troverà diversi. Hanno questo in comune, tutti: poca acqua, poco cibo e parecchi maltrattamenti. In Etiopia Mahdi ci resta un anno, da lì riesce a partire pagando i trafficanti. Se hai fortuna paghi una sola volta, se non ne hai paghi e vieni venduto ad altre bande di trafficanti. Talvolta i gruppi di trafficanti si scontrano, nascono conflitti a fuoco e i migranti vengono contesi, se sopravvivono. Mahdi paga due volte: viene rapito e tenuto prigioniero per due mesi. Paga cinquecento dollari e viene portato a Khartum, la capitale del Sudan. A Khartun rimane due anni, decide quasi di restarci, ma non ha documenti e deve pagare ogni due mesi per rinnovarli. Prosegue il viaggio e cerca persone che possano portarlo in Libia. Non è facile trovare il canale giusto, posto che esista davvero. Più facile è, invece, trovarsi di nuovo in balia di organizzazioni il cui scopo è estorcere a ogni migrante fino all’ultimo dollaro che le famiglie, in patria, sono in grado di racimolare. E qui arriva il racconto, fondamentale, che spiega come sia possibile che i migranti in viaggio riescano a pagare i riscatti. I migranti restano in contatto con le loro famiglie. Per le bande di trafficanti questo contatto è essenziale perché durante le telefonate a casa picchiano e torturano i migranti in modo tale che le famiglie ascoltino le urla di dolore. Chi sta all’altro capo del telefono, preso dall’angoscia, fa il possibile per mettere insieme il denaro. Le detenzioni durano molti mesi perché molto tempo occorre alle famiglie per trovare i soldi e modo per farli arrivare. Questo passaggio è fondamentale, spiega un meccanismo poco conosciuto e ci mette di fronte a un dramma che lascia senza parole: le sofferenze subite da chi lascia il proprio Paese e anche chi resta- Sofferenze che durano anni. Dal Susan alla Libia Mahdi impiega un mese e mezzo. In Libia viene rinchiuso in attesa che arrivino i soldi per il riscatto. Ai maltrattamenti, alla mancanza di acqua e cibo si aggiunge la reclusione perché qui più che altrove i migranti sono merce preziosa che può essere sottratta da bande rivali. Quei corpi sono denaro sonante, rappresentano la certezza di poter estorcere denaro. La reclusione in Libia dura per Mahdi cinque o sei mesi. Finché non paghi resti chiuso, se paghi puoi prendere aria. Mahdi ha vissuto in uno stanzone stipato di persone, dove mancava l’aria, eppure dice: “Sono fortunato, non sono mai stato sotto terra”. E poi c’erano le torture al telefono con le famiglie, per far arrivare i soldi. Dopo aver pagato, Mahdi resta ancora per qualche mese vicino al mare dove per partire bisogna raggruppare un numero cospicuo di migranti. Stipati su una piccola imbarcazione, in tanti, mare agitato, inizia la traversata. Si rischia di affondare. Mancano acqua e cibo. A metà strada Mahdi crede che sarebbe finita lì e invece arriva la Diciotti a salvarlo, a salvare tutti. “Ci hanno salvato la vita, vedi gente con il viso sorridente, non sai come dire grazie” e continua: “Il Capitano della nave è stato grande: ci ha detto io sono sempre con voi, tanta gente sta con voi, cominciando da me”. “Hai sentito i tuoi parenti?”, chiede Billau: è l’ultima domanda. “Non so come spiegare, i miei familiari erano contenti, sapendo cosa avevo passato in Libia. I miei non sapevano come esprimere la loro felicità e ora, a ripensarci, mi emoziono”.
Roberto Saviano – L’Antitaliano – L’Espresso 16 settembre 2018 -

lunedì 17 settembre 2018

Speciale: I primi piatti del Lunedì!...


Crema con Barbabietola e Cipolla rossa
Per 4 persone

450 gr di barbabietola cotta al forno, 1 cipolla rossa, 1 patata, 1 arancia, ¾ di lt di brodo vegetale, 1 dl di panna fresca, 4 fette di pane di Altamura, 1 cucchiaio di timo secco, olio, sale, pepe nero.

In una casseruola con 4 cucchiai d’olio, unitevi la cipolla tritata finemente, fatela soffriggere a fuoco lento per 5 minuti.
Aggiungete la barbabietola sbucciata e tagliata a dadini, una presa di sale e due scorze d’arancia. Lasciate insaporire per 1 minuto, poi unite il brodo vegetale caldo, coprite e cuocete a fuoco lento per 20 minuti. Aggiungete il succo di ½ arancia, un dl di panna fresca e frullate il tutto, finché otterrete una crema omogenea.
Distribuite sulle fette di pane un cucchiaio d’olio ciascuna, fatele tostare sotto il grill del forno ben caldo. Toglietele dal forno e cospargetele col timo. Tagliatele a dadini. Profumate la crema con una macinata di pepe nero e servitela accompagnata dai crostini.

Crema di Cannellini e Pescatrice
Per 4 persone

400 gr di cannellini secchi, 400 gr di filetto di pescatrice a fette di 1,5 cm di spessore, 1 rametto di rosmarino, 1 scalogno, prezzemolo, peperoncino in polvere, 4 pomodori perini, olio, sale.

Mettete a bagno i cannellini secchi per 12 ore in acqua tiepida leggermente salata. Scolateli, sciacquateli e fateli cuocere in una casseruola con abbondante acqua, unendo il rametto di rosmarino e 2 spicchi di scalogno. Cuocere per circa 2 ore, fin che saranno morbidi. Salateli, eliminate i gusti e passateli al passaverdura, unendo l’acqua necessaria per ottenere una crema abbastanza densa, che terrete al caldo.
In una padella con 4 cucchiai d’olio, fate rosolare 2 spicchi di scalogno, il prezzemolo tritato e un pizzico di peperoncino.
Eliminate lo scalogno, unite la pescatrice a fette e fate saltare per 5 minuti, aggiungete i pomodori, pelati e ridotti a filetti, salate e lasciate insaporire per 3 minuti.
Servite la crema di cannellini nei piatti, distribuendovi sopra la pescatrice.


Pasticciata di Corfù, Pastitsada, ricetta Greca
Per 4 persone

1 kg di carne bovina, 150 di passata di pomodoro, 2 bicchieri di vino rosso, 4 cipolle, 4 spicchi d’aglio, ½ kg di maccheroni grossi, formaggio kefalotiri grattugiato (in mancanza pecorino), burro, sale, pepe.

Lavare la carne e con un coltello appuntito, inciderla in diverse parti e infilare 1 spicchio d’aglio con sale e pepe. Salare e pepare la carne e metterla nella casseruola con 30 gr di burro e soffriggerla con le cipolle tritate. Versare il vino, fiammeggiare e unire la passata di pomodoro. Aggiungere acqua sino a coprire la carne per 5 cm.
Fare cuocere sin che la carne diventi tenera.
Verso fine cottura della carne, in un’altra casseruola con abbondante acqua salata in ebollizione fare cuocere i maccheroni al dente.
Scolarli e mischiarli in una zuppiera con la salsa della carne e il formaggio grattugiato. Tagliare la carne in porzioni e unirla in ciascun piatto dei commensali. Delizioso e completo piatto di un pasto.


Vellutata con Funghi porcini
Per 4 persone

300 gr di funghi porcini, 1 cipolla, farina, 1 lt di brodo, 2 tuorli, gr 125 di panna, 2 cucchiai di vino bianco secco, burro, sale.

Tritate finemente la cipolla e fatela soffriggere in 40 gr di burro, aggiungente i funghi, puliti delicatamente con un canovaccio umido e poi tagliati a fettine, Lasciateli insaporire. Salate leggermente, unite 50 gr di farina bianca, mescolate delicatamente con un cucchiaio di legno, bagnate col brodo caldo e fate cuocere per 10 minuti.
In una terrina mescolate i tuorli con la panna e il vino bianco, versate questo composto nel brodo, mescolate bene e servitela caldissima.