Nel pomeriggio di giovedì 30 aprile, sola davanti a un muro
di telecamere e di microfoni una giovane donna di 35 anni sale su un podio per
parlare, da sola, a una città in guerra, imprigionata nel coprifuoco, occupata
dalla Guardia Nazionale in assetto da combattimento. Sa che le sue parole
potranno essere il detonatore che farà esplodere la violenza, scorrere il
sangue per le strade, scavare un fossato ancora più profondo fra l’America
Bianca e l’America Nera, già troppo piena di corpi di cittadini uccisi dalla
polizia. Il suo nome è Marilyn Mosby, la più giovane State Attorny; procuratore
dello Stato, di tutti gli Usa. Nessuno, fuori dalla città di Baltimora dove era
stata eletta Procuratore del Mayland sconfiggendo un avversario strafavorito,
la conosceva. Era stato soprattutto il voto dei cittadini afroamericani come
lei a portarla a quell’incarico. E a loro, a quell’universo insieme offeso e
angosciato che aveva assistito e partecipato alla ricolta dopo la morte
dell’ennesimo arrestato per mano della polizia, Marilyn doveva rispondere. Ma
senza mai dimenticare che lei, quale che fosse il colore della sua carnagione,
non rappresenta soltanto chi la votò, ma la legge. E la legge dovrebbe sempre
essere cieca e uguale per tutti. Nella sua conferenza stampa, Marilyn avrebbe
annunciato la decisione di aprire un procedimento penale incriminando per
omicidio involontario i sei agenti della polizia di Baltimora che avevano
ammanettato, strapazzato e sbatacchiato in cellulare Freddy Gray, indifferenti
alle sue grida di dolore per la spina dorsale che gli avevano spezzato. Trauma
che dopo una settimana di agonia l’avrebbe ucciso. La posizione personale della
Procuratrice dello Stato del Maryland, però, era molto speciale. Trentacinque
anni prima era nata nel ghetto nero di Boston, figlia di madre e padre entrambi
agenti di polizia, nipote di un nonno poliziotto e di ben cinque zii con la
stessa uniforme. Nelle sue vene scorre da generazioni il sangue “blu” della
divisa di quegli agenti, di quegli uomini, che avrebbe dovuto incriminare. E
cercare di mandare dietro le sbarre per vent’anni, sapendo bene quale
affettuoso trattamento sia riservato dagli altri detenuti agli agenti di
polizia carcerati. (..). Con voce prima un po’ incerta, da esaminanda davanti a
una commissione specialmente severa, e poi via via più sicura, Marilyn ha fatto
“quello che le prove emerse nelle indagini mi obbligano a fare” o per
“sacrificare alla collera chi spesso sacrifica la propria vita per la sicurezza
degli altri”, ha detto, ma perché la legge si applichi anche a coloro che
devono farla rispettare agli altri. “Amo e rispetto la polizia e per questo
devo perseguire coloro che dentro la polizia sbagliano”. E quando le luci delle
telecamere si sono spente nessuno, neppure il sindacato di polizia che invece a
New York si era ammutinato contro il sindaco De Blasio per avere osato
criticare i “fratelli in blu” ha potuto fare altro che chinare la testa e
annuire. La teenager nera che aveva visto il volto più atroce della
segregazione era diventata a 35 anni il simbolo di come si può fare, con le
proprie forze, giustizia della ingiustizia nella quale si nasce e poi cercare
di amministrarla per tutti, senza favori né timori. Trovando anche il tempo di
sposarsi e di avere due figlie. Marilyn Mosby. Riponiamo il nome di questa
donna, e l’immagine del suo bel viso color caffelatte, negli scaffali della
memoria. Lo sentiremo ancora, in futuro.
Vittorio Zucconi – Donna di Repubblica – 23 maggio 2015 -
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