Bisognerebbe Avere il coraggio di confessare che capirci
qualcosa nella baraonda delle statistiche su economia e lavoro è impresa ardua
se non impossibile. Sembra di stare sotto la doccia scozzese mentre fuori della
finestra si alternano cicale e formiche, gufi e allodole: ieri eravamo un sacco
pessimisti; ma oggi siamo molto ottimisti, evviva; invece domani, ahinoi, le
cose non andranno vene. Le statistiche (..) sono ormai il principale strumento
di propaganda politica. Così, a seconda dei casi, è tutta colpa di un governo
imbelle, oppure viviamo nel migliore dei mondi possibili. Che confusione.
L’Inps, per esempio, ha appena diffuso cifre da nuova primavera economica: nei
primi tre mesi dell’anno i rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono
cresciuti di 203mila unità rispetto al 2014, cifra che comprende sia nuovi
contratti, sia la trasformazione di vecchi da precari a stabili. Bè, c’è da
gongolare, no? E no! Cgil e Uil, per esempio la buttano in politica: attribuiscono
l’inatteso saldo positivo allo sconto contributivo alle imprese deciso con
l’ultima legge di stabilità, e allora polemicamente si chiedono a cosa sia
servito tagliare diritti dei lavoratori con il Jobs Act di marzo (per gli
effetti di questo sarebbe meglio, però, aspettare il secondo trimestre). Ma i
sindacati, come dimostra il caso scuola, in certi momenti sembrano capaci solo
di ripetere stanche cantilene. (..). Allora Lasciamo Da
Parte le statistiche
dell’occupazione e guardiamo il Pil, insomma la ricchezza che il Paese produce,
un termometro indiscutibile. E anche qui: all’inizio del 2015, dopo anni di
pessimisti e cassandre, come una volta si chiamavano i gufi, trionfava
finalmente l’ottimismo, se non altro perché mai si era visto un così eccezionale
insieme di circostanze favorevoli: scendeva il prezzo del petrolio; scalutava
l’euro rispetto al dollaro per la gioia degli esportatori del made in Italy; le
banconote stampate della Bce di Mario Draghi invadevano banche esauste; e il
governo distribuiva bonus di 8° euro, firmava il jobs act e metteva da parte
preziosi tesoretti. Vedrete che tutto questo – profetizzavano esperti ed
economisti –varrà almeno un punto di Pil in più che si aggiungerà al nostro
tradizionale zero virgola. E invece no, perché ora non c’è out look che ci
assegni il 2015 qualcosa di più dello zero virgola. Non ci resta che sperare
nel 2016. Perché? Come Si Spiega? Aspettiamo le “considerazioni
finali” del governatore della Banca d’Italia. Ma intanto si può registrare che
tutto cambia e regna l’incertezza: il prezzo del petrolio è instabile e ha
ripreso ad aumentare; la crisi greca mette in affanno le Borse e spinge
all’insù i tassi di interesse; l’euro ha recuperato terreno sul dollaro e, come
se non bastasse, la Consulta ci ha regalato una sentenza sull’illegittimità del
mancato adeguamento delle pensioni all’inflazione che, bene che vada, ci
costerà come una manovra finanziaria.(..). Matteo Renzi, che si è trovato
addosso una bella eredità, lo sa bene. Finora si è preoccupato soprattutto di
garantirsi strumenti per strappare una maggioranza più robusta e un Parlamento
ridotto di fatto a una sola Camera per rendere più facile e svelta l’attività
di Palazzo Chigi. E vabbè. Ora però dovrebbe dirci almeno che cosa intende fare
con queste nuove armi. Noi, a mo’ di agenda, ci limitiamo solo a elencargli
alcune parole/problemi da non dimenticare: debito pubblico, evasione fiscale,
corruzione, inefficienza della pubblica amministrazione. Da dove cominciamo per
cambiare verso anche qui?
Bruno Manfellotto – Questa settimana www.lespresso.it - @bmanfellotto – 21 maggio
2015
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