Quando lei scrive, in risposta a un lettore sulla questione
del “poliamore”, che alla scelta, oggi, si sostituisce la revocabilità di tutte
le scelte come forma di libertà, la seguo. Però non trovo giusto affermare che
questo peregrinare tra relazioni non ci consenta “di costruire e riconoscerci
in una propria biografia”. Non ritengo infatti l’irrevocabilità di una scelta
di coppia l’unico racconto possibile dela vita di un uomo o di una donna. Mi
pare anzi che la letteratura abbia ampiamente dimostrato come i personaggi più
interessanti siano quelli che sfuggono a
questa legge. Chissà come mai i romanzi vanno in una direzione diversa dalla
vita “comme il faut” secondo il Moralizzatore di turno, sia esso la Chiesa, lo
Psichiatra o il Filosofo.
Marialaura Carcano – pulpito12@gmail.com
Se lei per “biografia” intende la “vita, è ovvio che tutti
hanno una biografia, anche quelli che revocano tutte le scelte che hanno fatto
e poi revocano persino la scelta di revocarle. Se poi limita la revocabilità
delle scelte alla scelta di coppia, toglie dal gioco tutte le altre scelte a
cui siamo “costretti” nel nostro tempo, in cui, rotti tutti i legami
tradizionali di parentela, di classe di usi e costumi locali, ciascuno si trova
a gestire la propria esistenza in un abbondanza infinita di scelte. E non
possiamo escludere che proprio questo sia alla base del senso di
insoddisfazione dell’uomo d’oggi, se è vero che, a scelta avvenuta, c’è sempre
e comunque il dubbio che potesse essercene una più vantaggiosa, così che
revochiamo la precedente e poi quella successiva, all’infinito. In questo
senso, io dicevo, non si costruisce alcuna biografia, la nostra identità o non
si costituisce o, se già costituita, va continuamente in crisi. In secondo
luogo, se ogni scelta è revocabile togliamo ogni significato alla parola
“scelta”, perché non possiamo considerare davvero tale una decisione che non
comporta alcuna conseguenza di rilievo. Il fatto che nessuna scelta sembri
precluderne un’altra mi pare rientri perfettamente nella cultura del consumo
del nostro tempo, dove, al pari di tutti i prodotti che per i nostri bisogni
del momento possiamo scegliere, anche la nostra identità può essere indossata e
poi dismessa come un abito. (..). Quando si assume il proprio “sentire” come
criterio di scelta si regredisce al livello infantile che Freud ha descritto
come regolato dal principio del piacere, dove il bambino è attento solo ai
propri bisogni e ai propri desideri, senza alcuna capacità di misurare se
stesso in rapporto con gli altri. Ciò comporta una visione del mondo del tutto
sganciata dal principio di realtà a cui da adulti si dovrebbe pervenire, con la
conseguente percezione del mondo come un riflesso dei propri desideri, che, se
inappagati, determinano un ricorso ad altre scelte per evitare la delusione e
la frustrazione della meta non raggiunta. Nasce da qui quella cultura
narcisista a sfondo edonistico che tende alla realizzazione individuale, che non
tiene assolutamente conto dell’appartenenza dell’individuo a quel più ampio
sistema sociale nel quale quel “mai io sento così” deve misurarsi con quello
che “sentono gli altri”. (..) Rinunciare a priori a impegni a lungo termine o a
coinvolgimenti affettivi che non si riducano al tempo breve della passione –
che si chiama “passione” perché, quando ne è posseduto, l’Io non è padrone di
sé, ma “patisce” la fascinazione dell’altro e quindi è nelle mani dell’altro -,
concentrarsi sul presente senza memoria del proprio passato e senza progetto
per il futuro, significa costruire una vita fatta di scelte, di atti, di eventi
isolati, ma non una “biografia”, perché la biografia è un opera che è
riconoscibile perchè ha una sua struttura, un suo disegno, una sua narrativa,
una sua storia, la cui trama non è di continuo interrotta da scelte fatte sul
momento nelle direzioni più attraenti del momento, perché in quel momento “io
sento così”.
umberogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica - 16 maggio 2015
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