La Resistenza è l’epilogo della grande guerra
civile europea che ha segnato il “secolo breve”. Espressione perfetta della sua
grandiosa tragicità. Gli insanabili conflitti nazionali e ideologici si
concentrano sulla scena di un solo Paese, manifestando la loro essenza
fratricida. L’inimicizia perviene necessariamente al suo massimo quando si
scatena nel seno di una famiglia, poiché lì contendenti lottano per lo stesso
luogo, non posseggono che quello spazio. La violenza scardina, allora, ogni
“diritto di guerra”, grande e problematica costruzione dello spirito europeo
che il Novecento delle guerre civili ha spazzato via. Tuttavia, occorre a un
tempo riconoscere che l’energia distruttiva che esse scatenano sta a fondamento
della loro stessa forza costituente. Dalle guerre civili romane si origina
l’evo augusteo, il principato. Soltanto la guerra civile rifonda ab integro. E non c’è dubbio che la
Resistenza abbia prodotto un’autentica rifondazione anche del nostro Stato. Per
questo la violenza era necessaria, e così venne praticata, da una parte e
dall’altra. Chi in tali situazioni si illude ancora di poter agire attraverso
le vie del compromesso (sacrosante in condizioni normali), chi si appella alla fraternitas, dimenticando che proprio
questa è la ragione della spietatezza del conflitto, finirà “giustiziato” da
entrambe le parti in lotta. Da molti anni ricordiamo la Resistenza esaltandone
la dimensione costituente e cercando di rimuovere il su essere in tutto e per
tutto guerra civile. Inevitabile che ciò accadesse. Si può vivere solo
dimenticando o mascherando i lutti più atroci. Ma ecco che oggi accade qualcosa
che ci impone di fare ancora i conti con quel senso della guerra che ci
illudevamo di aver superato per sempre. Non che la guerra come volontà di
negazione dell’altro fosse scomparsa, ma riguardava le “periferie”. Televisioni
e media non avvicinano per niente, ma anzi trasformano in immagini di fantasia.
Con quelle immagini noi non c’entravamo. La politica non poteva più comportare
per noi anche l’”arte della guerra”. Non avremmo mai più avuto la necessità di
impararla. E se in circostanze lontane da casa a una guerra si doveva pure
partecipare, c’erano mercenari e professionisti per “esercitarla”. Bastava per
le “spese militari”, come si dice, non fossero troppo salate. Per settant’anni
l’Europa ha vissuto della “lieta novella” che politica e polemos avessero divorziato in eterno. E ora, ecco, essa tace, con
imprevedibili conseguenze psicologiche e sociali. La ragione di tale mutamento
sta nel dilagare del “terrorismo”? No, il terrorismo sta cambiando o ha già
cambiato natura e diventa fattore della guerra tra entità sovrane. Si è. cioè,
trasformato in quell’azione volta a incutere terrore al “civile”,
programmaticamente perseguita dagli stessi Stati in lotta almeno a partire da
Napoleone. Ma l’Is non è uno Stato, si dirà. Conta si dichiari tale, si
“territorializzi”; che non sieda all’Onu importa solo a chi fantastichi ancora
di un “diritto di guerra”. Proprio di questo avverte l’europeo: che si tratta
di guerra terroristica, e di una guerra in cui il dichiarante ufficiale odia il
suo nemico come nella più perfetta guerra civile, e non teme in alcun modo né
di morire né di uccidere. Torna quella tragica serietà della politica che aveva
come suo criterio limite di poter morire per essa. Serietà che aveva animato
tutta la Resistenza e dalla quale siamo lontani antropologicamente più ancora delle retoriche celebrative e delle
loro umane, troppo umane dimenticanze. Preghiamo che questa pace solo
conservativa ci venga risparmiata. Che il nemico attuale possa essere sconfitto
senza dover arrischiare la sicurezza che essa ci ha garantito. Preghiamo.
Massimo Cacciari – Parole nel vuoto – www.lespresso.it – 30 aprile 2015 -
Nessun commento:
Posta un commento