Tra cessioni,
disimpegni e dismissioni, il 2015 pare diventare l’anno del tramonto
dell’impero Fininvest, l’ultimo caso di “italianità fallimentare”, ma
sicuramente il più bizzarro. Pensate: un palazzinaro costruisce una potenza
mediatica: questa produce un partito politico che si impone in Italia per vent’anni,
involgarendone il carattere e procurandole danni notevoli, fino a quando una
coincidenza di sentenze, patologie sessuali del fondatore e allarme
internazionale provocano il crollo del castello di carte. In vendita oggi sono
la gloriosa squadra di calcio, la mitica televisione, lo strepitoso partito
politico, i giornali, le assicurazioni, le ville, gli intellettuali. Più che
vendite, sono saldi. Ci sono degli insegnamenti da trarre da questa storia? Ci
si può provare. La Fininvest nacque nel 1978 con capitali talmente misteriosi
da richiedere ben 38 (!) holding, maneggiate da Cesare Previti e Marcello
Dell’Utri, carismatici soci fondatori. A quanto dicono le sentenze, tra i
generosi finanziatori, diversi bei nomi di Cosa Nostra, finiti poi ammazzati.
Dieci anni dopo, Fininvest era il terzo gruppo finanziario italiano, dopo Fiat
e Ferruzzi, ma talmente indebitata da rischiare la bancarotta o peggio. La
vittoria elettorale di Berlusconi del 1994 rese però le banche molto
comprensive e la magistratura molto prudente nei suoi riguardi. Consob,
Confindustria, Guardia di Finanza, Antitrust furono altrettanto simpatetiche.
gli oppositori politici? Ne erano più ammirati che spaventati. In campo
televisivo (il suo maggior asset) Fininvest si trovò poi senza avversari,
perché Berlusconi controllava anche la concorrente Rai. Con tale consenso,
com’è stato possibile, allora, che Fininvest non sia diventata la Fiat del
2000? Perché non ha creato quel milione
di posti di lavoro a cui la gente aveva creduto? Provo a dire due ragioni: La
prima: Fininvest e Berlusconi non avevano la minima idea su come far prosperare
un Paese, né alcuna visione sociale. se non quella fretta dei faccendieri e dei
prepotenti. La seconda: Fininvest è stata un fenomeno italiano, incapace di
avere il minimo successo fuori dai confini nazionali. Il prodotto che ha
offerto andava bene per noi, che siamo di bocca buona, ed era confezionato
principalmente per vincere le elezioni politiche. In particolare il
cortocircuito televisione-politica è stato letale, perché ha bloccato la
televisione italiana, impedito la sua innovazione; e quella privata ha
contribuito a trascinare nello sciacquone anche quella pubblica, che peraltro
non chiedeva di meglio. Però, appena il mondo ha potuto entrare nella “casa
degli italiani” con l’Europa, con i laptop, gli iPhone, i satelliti, la pay, la
futura Netflix, anche noi ci si è cominciati timidamente a chiedere se davvero
Emilio Fede, Sgarbi, Mughini, la Santanché fossero indispensabili. E fu così
che, con l’acume del vero imprenditore, Berlusconi decise di vendere tutto. E
di fare in fretta, prima che si venisse a sapere il vero valore della baracca.
Enrico Deaglio – Annali – Il Venerdì di Repubblica – 8 maggio
2015 -
Nessun commento:
Posta un commento