Da due anni porto avanti un progetto nel carcere femminile di
Monza: un atelier di teatro classico, con Eschilo, Sofocle, Euripide. L’anno
scorso Le Troiane, quest’anno L’Orestea. E’ impressionante l’impatto
che questi testi, ostici per gli studentelli del liceo, hanno avuto su queste
donne, perlopiù straniere, e poco scolarizzate. Hanno amato, discusso,
partecipato. Nei mesi scorsi si sono confrontate con Oreste: la vendetta, il
delitto, la colpa, il rimorso, la giustizia. Non è stato un percorso facile,
perché questi temi vanno a toccare nervi scoperti che loro e le loro amiche
(..) hanno vissuto e stanno pagando. C’è un’immensa sete di bellezza e di
sapere, in contesti che diamo per scontato siano “inferiori”, e la hatharsis che vivevano i popolani greci
assiepati nei teatri, lì funziona ancora. Non so cosa sarà della mia bellissima
Vanessa, della dolce Helena, della leonessa Tatiana, della timida Georgeta,
della brillante Yolanta, della fragile e geniale Stefania, una volta uscite dal
carcere, ma da quello che è emerso dal saggio finale, dalle loro parole, dai
dibattiti che si accendevano dopo le prove, credo che un piccolo seme sia stato
gettato. Ricorda il motto della casa editrice Larousse? “Je sème à tout vent”.
Luisa Gay – luisagay@alice.it
La tragedia, diceva Nietzsche, non è un genere letterario, ma
la condizione stessa dell’esistenza, sempre alla ricerca di un senso, in vista
della morte che è l’implosione di ogni senso. Un’esistenza che gioca
nell’illusione della libertà, quando il destino o gli dèi ne hanno già
determinato il percorso, per cui diventa difficile decide etto re quanto è
colpevole l’uomo e quanto invece è destinato a quella colpa. Il carcere mi pare
il luogo perfetto per illustrare questo intreccio di contraddizioni, che viene
subito compreso e interiorizzato a prescindere dal grado di alfabetizzazione,
dai diversi mondi da cui si proviene e dal livello culturale raggiunto, perché
la verità dell’esistenza nel suo ineliminabile profilo tragico non accetta
mascheramenti, ingannevoli consolazioni, o come dice Eschilo, “cieche
speranze”. I Greci, scrive Nietzsche, “sono la specie dip uomini finora meglio
riuscita, più invidiata, più seduttrice verso la vita…Proprio essi ebbero
bisogno della tragedia? Sì perché il pessimismo non è necessariamente un segno
di declino, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e indeboliti come
lo è per noi uomini “moderni” ed europei. C’è anche un pessimismo della forza,
un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro,
raccapricciante, malvagio e problematico”(…).I nomi delle donne in carcere che
hanno recitato la tragedia lasciano intendere un’altra provenienza rispetto
alla nostra che, intrisa di cristianesimo, ha estinto il dolore della tragedia
nella consolazione della fede e della speranza. Karl Jaspers scrive che in un
contesto cristiano non c’è più posto per una dimensione tragica. (..). Per
questo nel carcere, dove la speranza si attenua, se non ci si concede cristianamente
alla rassegnazione, si è nelle migliori condizioni per immedesimarsi con quelle
figure tragiche che non sono messe in scena per commuovere o impressionare il
pubblico, ma per metterlo in contatto col lato tragico della nostra esistenza,
da cui fuggiamo a gambe levate con quegli espedienti che Pascal chiamava divertissement.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 17 gennaio 2015
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