Ci sono garanzie che non scadono mai. Per esempio, quelle che
bisogna dare per essere buoni candidati
al “Quirinale: essere un “presidente di garanzia” pare il requisito
predominante. Non c’è dubbio che l’espressione suoni bene; peccato che, in
quanto a senso, non sia facile capire a cosa si riferisca. “Garante” significa”
difensore”: ma di cosa? Di tutti e di tutto? Questo è esattamente cià che
prevede la Costituzione, quindi reclamare un “presidente di garanzia” equivale
a desiderare un “presidente che presieda”. La tautologia richiama alla mente il
geniale proclama di Osvaldo Bagnoli, allenatore che portò il Verona allo
scudetto e che in epoca di profondi dibattiti sulle tattiche di gioco spiegò a
Gianni Mura, in milanese, i propri principi: “El tersin che fa el tersin; el
mediàn che fa el mediàn”. Quelli sono difensori, queste sono garanzie. Invece,
nel dibattito politico, “garanzia” è diventata una parola vuota, lo srotolarsi
di quattro sillabe carezzevoli. Appare come un soggetto senza predicato:
garanzia di cosa e di chi? Un conto sarebbe, per esempio, un presidente garante
della Costituzione (come previsto dalla Costituzione stessa), un altro conto un
presidente garante dell’ “agibilità” dei politici condannati. E’ lo stesso fenomeno
di narcosi semantica che affligge altri termini, come per esempio “riforme”.
Anche gli aspiranti terroristi di estrema destra avevano elaborato un progetto
di riforme costituzionali e lo storico Piano di Rinascita di Licio Gelli era a
suo modo un tentativo riformista. Con tali precedenti la prudenza
consiglierebbe di non esaltare le “riforme” in quanto tali, ma di specificare
sempre bene cosa si intenda riformare e come. La ricetta è: si prende un
termine generico e connotato positivamente, lo si priva di ogni ulteriore
specificazione e lo si usa in espressioni succinte e d’effetto. Il risultato è
garantito.
Stefano Bartezzaghi – Come dire – L’Espresso – 15 gennaio
2015 -
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