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giovedì 8 gennaio 2015

Lo Sapevate Che: Controdiscorso per l'anno nuovo...



Mi domando se davvero sia possibile che ciascuno di noi si occupi del proprio contesto senza mai superare lo steccato. Ho molte volte detto che fare bene il proprio mestiere è il modo migliore per contribuire al funzionamento del meccanismo sociale, è già fare politica. Ma capita che non sia possibile fare bene il proprio lavoro. Capita che le condizioni siano talmente estreme che diventa necessario sconfinare, prendere parte al dibattito pubblico per provare (talvolta con scarsissimo successo) a modificare il corso delle cose.(..). Ho Sempre Ritenuto che l’importanza della letteratura risieda proprio in questo: essere spuria, bastarda, contaminata, uscire dal ristretto ambito dell’accademia. Ho sempre ritenuto che uno scrittore, ma anche un conduttore televisivo, un comico (perché no) e chiunque abbia visibilità, debba necessariamente prestare quella visibilità a cause che ritiene giuste, necessarie, fondamentali. Debba farsi strumento, veicolo, tramite. Per la politica varrebbe la stessa regola, anzi, varrebbe all’ennesima potenza, ma continuare a sperare che ci arrivi da altri una possibilità di cambiamento, è il nostro più grande errore. E’ nostro diritto pretenderlo, ma allo stesso tempo dobbiamo costruirci una personale cassetta degli attrezzi. (..). Allora io preferirei udire qualcosa di simile a un anti-discorso, ovvero un discorso col segno meno e non alla fine dell’anno, come ad assolversi da ogni responsabilità, ma all’inizio del nuovo. Ovvero adesso. Cosa non abbiamo fatto nell’anno che si è appena concluso? Cosa non siamo riusciti a fare per mancanza di tempo o di risorse? Nella vita i fallimenti sono importanti perché ci fanno capire come modificare il passo. Cancellare, nascondere, insabbiare i propri fallimenti significa restare fermi al palo, significa non capire cosa va cambiato. Un fallimento insegna più di mille successi. Ecco Perché comincio io a dire cosa avrei voluto fare e non ho fatto. Avrei voluto – è una cosa che dico da anni – portare una redazione, un ufficio, la costola di un quotidiano nazionale nel profondo Sud, nella periferia della periferia perché sia chiaro cosa accade in quell’Italia provinciale e non cittadina che però detta le regole, che nel suo essere arcaica è diventata norma e modello economico vincente. In un’Italia che spesso parla dialetti incomprensibili, che ha le radici nel cemento delle metropoli mondiali. Avrei voluto che questa contraddizione avesse trovato spazio nel dibattito pubblico nazionale, non come ossessione personale, ma come lente attraverso cui spiegare cosa accade. Perché le aziende sane non ce la fanno, perché la tassazione aumenta invece che diminuire, perché sempre più imprese lasciano il paese per andare a produrre altrove. Rispondere a queste domande significa ammettere di aver sbagliato, significa non ragionare sempre in un’ottica di contrapposizione, significa essere in grado di cambiare passo.(..). Prima di cercare altrove i responsabili dei nostri fallimenti cerchiamo di capire quali sono le nostre responsabilità, solo così, solo pretendendo il massimo da noi riusciremo a pretendere il massimo da chi ci sta accanto e da chi ci governa. Assolvendo noi stessi, finiremo per assolvere tutti. Questa mia è una “call to action” che parta da noi: individuiamo il nostro segno meno, non lo dimentichiamo, usiamolo per migliorarci. Cosa avreste voluto fare e non avete fatto? Quali le vostre responsabilità nel fallimento? Capire è l’unico modo perché l’azione diventi efficace.
Roberto Saviano – L’antitaliano – L’Espresso – 8 gennaio 2015 -

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