Mi domando se davvero sia possibile che ciascuno di noi si
occupi del proprio contesto senza mai superare lo steccato. Ho molte volte
detto che fare bene il proprio mestiere è il modo migliore per contribuire al
funzionamento del meccanismo sociale, è già fare politica. Ma capita che non
sia possibile fare bene il proprio lavoro. Capita che le condizioni siano
talmente estreme che diventa necessario sconfinare, prendere parte al dibattito
pubblico per provare (talvolta con scarsissimo successo) a modificare il corso
delle cose.(..). Ho Sempre Ritenuto che l’importanza della letteratura
risieda proprio in questo: essere spuria, bastarda, contaminata, uscire dal
ristretto ambito dell’accademia. Ho sempre ritenuto che uno scrittore, ma anche
un conduttore televisivo, un comico (perché no) e chiunque abbia visibilità,
debba necessariamente prestare quella visibilità a cause che ritiene giuste,
necessarie, fondamentali. Debba farsi strumento, veicolo, tramite. Per la
politica varrebbe la stessa regola, anzi, varrebbe all’ennesima potenza, ma
continuare a sperare che ci arrivi da altri una possibilità di cambiamento, è
il nostro più grande errore. E’ nostro diritto pretenderlo, ma allo stesso
tempo dobbiamo costruirci una personale cassetta degli attrezzi. (..). Allora
io preferirei udire qualcosa di simile a un anti-discorso, ovvero un discorso
col segno meno e non alla fine dell’anno, come ad assolversi da ogni
responsabilità, ma all’inizio del nuovo. Ovvero adesso. Cosa non abbiamo fatto
nell’anno che si è appena concluso? Cosa non siamo riusciti a fare per mancanza
di tempo o di risorse? Nella vita i fallimenti sono importanti perché ci fanno
capire come modificare il passo. Cancellare, nascondere, insabbiare i propri
fallimenti significa restare fermi al palo, significa non capire cosa va
cambiato. Un fallimento insegna più di mille successi. Ecco Perché comincio io
a dire cosa avrei voluto fare e non ho fatto. Avrei voluto – è una cosa che
dico da anni – portare una redazione, un ufficio, la costola di un quotidiano
nazionale nel profondo Sud, nella periferia della periferia perché sia chiaro
cosa accade in quell’Italia provinciale e non cittadina che però detta le
regole, che nel suo essere arcaica è diventata norma e modello economico
vincente. In un’Italia che spesso parla dialetti incomprensibili, che ha le
radici nel cemento delle metropoli mondiali. Avrei voluto che questa
contraddizione avesse trovato spazio nel dibattito pubblico nazionale, non come
ossessione personale, ma come lente attraverso cui spiegare cosa accade. Perché
le aziende sane non ce la fanno, perché la tassazione aumenta invece che
diminuire, perché sempre più imprese lasciano il paese per andare a produrre
altrove. Rispondere a queste domande significa ammettere di aver sbagliato,
significa non ragionare sempre in un’ottica di contrapposizione, significa
essere in grado di cambiare passo.(..). Prima di cercare altrove i responsabili
dei nostri fallimenti cerchiamo di capire quali sono le nostre responsabilità,
solo così, solo pretendendo il massimo da noi riusciremo a pretendere il
massimo da chi ci sta accanto e da chi ci governa. Assolvendo noi stessi,
finiremo per assolvere tutti. Questa mia è una “call to action” che parta da
noi: individuiamo il nostro segno meno, non lo dimentichiamo, usiamolo per
migliorarci. Cosa avreste voluto fare e non avete fatto? Quali le vostre
responsabilità nel fallimento? Capire è l’unico modo perché l’azione diventi
efficace.
Roberto Saviano – L’antitaliano – L’Espresso – 8 gennaio 2015
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