Sarei tentato dal fare un esperimento: iniziare a
comunicare aderendo, su ogni argomento, alla teoria maggioritaria, quella che
guadagna consenso unanime. Sulla sicurezza? Serve pugno di ferro.
Sull’immigrazione? Non possiamo accogliere tutti. Sulla legalizzazione delle
droghe? Che ne sarà dei nostri ragazzi! Sui cervelli in fuga potrei fare ironia
augurandomi che emigrino i cervelli dei politici più inadeguati. Su eutanasia, coppie gay e maternità
surrogata direi che sono cose private da risolvere in famiglia. Sui processi in
corso direi la mia a ogni udienza, mostrando di avere in spregio il lavoro dei
magistrati perché non farei cronaca (sacrosanta e preziosa), ma tifo. Parlerei
alla pancia, all’emotività e le risposte sarebbero di approvazione per me e di
odio verso l’oggetto dei miei strali. Ma capiamoci, non intendo usare i social come
esche. Non credo che i frequentatori di luoghi dove, in senso lato, si
reperiscono opinioni siano pesci da prendere all’amo. Non ho mai seguito
manuali di scrittura per social (capisci chi ti segue e rispondi ai bisogni;
blandisci i tuoi follower), tutt’altro: uno i social per ragionare, per
studiare ciò che accade e nel momento stesso in cui metto nero su bianco i miei
pensieri, mi accorgo che sto già proponendo un’interpretazione. E la mia idea
non resta lì, ma si scontra, si incontra con migliaia di occhi, di teste, di
pensieri. C’è chi condivide, chi mette un like, chi commenta per esprimere
accordo, chi per esprimere disaccordo. Questa dinamica mi appassiona perché
diventa un esercizio quotidiano, quello di individuare un tema su cui
riflettere, da approfondire e su cui stimolare un dibattito. Raccontare cosa significhi convivenza e integrazione, a esempio,
mi interessa moltissimo perché è un tema delicato che genera divisioni e
disagio. Emma Bonino ha fatto una esplicita esortazione ad abbandonare ogni
ipocrisia e capire che gli immigrati (calcoli alla mano) ci servono, e che
guarda caso non si tratta di buonismo, ma eventualmente di un sentimento
umanitario che viene appagato a vantaggio dell’interesse economico del Paese.
Ho condiviso questo mio pensiero sui social e un utente ha risposto: “che bello
sarà quando il partito islamico chiederà limitazioni ai nostri usi e costumi”.
Che c’entra? Ho pensato, poi mi è venuta in mente la recentissima decisione della
Corte di Giustizia dell’Unione Europea secondo cui le aziende private possono
vietare alle loro dipendenti di indossare il Hijab e mi sono sorpreso a pensare
che riflettere le nostre paure sono protezioni degli atti che siamo soliti
compiere ai danni di altri. Per ora nessuno ha mai vietato che il crocefisso
campeggiasse nelle aule delle scuole pubbliche: ci sono state cause e sentenze
ma alla fine non si è riuscito in alcun modo a scalfire la consuetudine di una
circolazione del 1926 che parla di crocefisso e ritratto del re nelle aule dei
tribunali. Invece mi risulta che partendo da due casi, uno belga e uno
francese, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia stabilito che il
divieto a indossare il Hijab “in un particolare contesto aziendale non costituisce
una discriminazione”. Non entro nel merito di cosa sia giusto o meno, mi limito
a constatare che il doppiopesismo in queste materie è affare assai pericoloso
perché non ci tutela ma ci riempie di paura: ci fa capire che, se esiste
ingiustizia, può non andarci sempre bene, che possiamo diventare noi le
vittime. Chaimaa Fatihi, ventiquattrenne italiana, musulmana di origine
marocchina e studentessa di Giurisprudenza, ha scritto un commento interrante
alla sentenza, un commento di cui riporto le prime righe. “La sentenza della
Cgue definisce il velo islamico, ossia il Hijab, come simbolo religioso alla
pari del crocefisso, della mezza luna, della stella di Davide”. Lei non è
d’accordo con questa interpretazione, ma se è così che il velo viene considerato,
perché il crocefisso è simbolo di pace e il velo invece può essere vietato? Il
rispetto delle identità religiose non può conoscere discriminazioni né nel
pubblico, né nel privato perché se accettiamo che questo avvenga, vivremo
sempre con il timore che possa capitare a noi ciò che ora infliggiamo agli
altri.
Roberto Saviano- L’Antitaliano – L’Espresso - 26 marzo 2017
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