La strada che porta all’odontoiatria moderna è
lastricata di cattive intenzioni, colpi di genio e truffe, suicidi e omicidi
commessi per via di un brevetto. È uno tra i soggetti più affascinanti, e
cruciali, nell’evoluzione della scienza medica, della nostra cultura estetica,
igienica e alimentare. Eppure, gli storici della medicina non se ne sono mai
interessati granché. Salvo poi – è il caso di Richard Barnett, docente di
Storia della scienza a Cambridge e all’University college di Londra –
sviscerante tutto il potenziale narrativo in un memoir di poco più di 250
pagine, molte delle quali occupate da illustrazioni; s’intitola Il sorriso rubato. Storia nobile (e atroce)
dell’odontoiatria ed esce in questi giorni nel Regno Unito e in Italia per
Logos Edizioni. “Questo libro” spiega Barnett “ è il terzo di una serie in cui
ho esplorato l’incredibile e ricchissima collezione di immagini storiche della
Wellcome Library di Londra. Il Primo. The Sick
Rose, è dedicato alla storia delle malattie, il secondo, Crucial Interventions, alla rivoluzione chirurgica
dell’Ottocento. Stavolta ho voluto affrontare un soggetto più intimo e
sgradevole. Sul quale, peraltro, hanno scritto quasi solo dentisti, con un
approccio eminentemente tecnico. Ho cercato di tracciare una storia culturale
ed “emotiva” dell’odontoiatria, in parte ispirata al bellissimo lavoro dello
storico Colin Jones, che in The smile
revolution ha mostrato le
affascinanti connessioni tra odontoiatria, alta società, arte e politica a
cavallo della Rivoluzione francese. Barnett ci offre l’immagine di una scienza
sempre in bilico tra cosmesi e medicina, impostura e progresso, rimedio e
tortura. Perché l’odontoiatria diventi una disciplina preventiva bisogna
attendere l’Ottocento. Cosa facevano i dentisti prima di allora? Per capirlo,
correggete le immagini dei faraoni, dei monarchi e delle dame che popolano le
nostre fantasie sul passato gli aristocratici egizi erano pieni di ascessi: la
regina Elisabetta I aveva tutti i denti neri e al Re Sole, intorno ai 40 anni,
non ne restava in bocca neanche uno. La ragione è che nell’antichità, e per
tutta l’era moderna, la perdita dei denti era considerata parte
dell’ineluttabile processo di invecchiamento. Dalla civiltà etrusca e romana ci
giungono poni e dentiere in avorio o in legno di bosso, ma per lo più i
trattati di medicina prescrivono rassegnazione e terapie del dolore. La bocca è
pertinenza del cavadenti. Cerusino, mercante, saltimbanco, opera nei giardini
pubblici, o durante le fiere, spesso accompagnato da ballerine e scimmie
ammaestrate, con esiti non sempre risolutivi- Talvolta letali. Sarà il secolo
dei Lumi – con il suo riguardo per il corpo – ad ammodernare questo personaggio
rabelaisiano. I cavadenti comincia ad autodefinirsi dentiste (alla francese) e a sperimentare nuove tecniche, si
ricava, a poco a poco, una nicchia nel mercato sanitario. Nasce l’odontoiatria
preventiva (che all’estrazione preferisce, ove possibile, il salvataggio del
dente) e arrivano le prime dentiere realistiche, in avorio o in osso. (..). Ma
sarà l’anestesia a dare una vera identità professionale alla categoria, Pare
che la prima evidenza sull’effetto narcotico si debba proprio a un mal di
denti: nell’agosto del 1799 il chimico inglese Humphry Davy, tormentato dai
denti del giudizio, decise di inalare tre dosi di un gas su cui stava
conducendo degli esperimenti. Per qualche minuto il dolore sparì. Cinquant’anni
dopo comparivano i primi anestetici generici. Non nei laboratori di medicina,
ma negli studi dei dentisti americani. E siamo così giunti all’odontoiatria
moderna. Alle otturazioni indolori, alla poltrona reclinabile, alla licenza appesa
al muro. Nel Settecento il filosofo svizzero Johann Lavater sosteneva che una
bocca sana annuncia un cuore onesto, mentre i denti marci indicano infermità o
sentimenti ignobili. Ora a prescindere dalla pretesa di dedurre il carattere
dai denti. Lavater ci ricorda che l’odontoiatria non è mai stata solo questione
di denti. Ripercorrerne la storia significa seguire l’evoluzione della moda,
dell’alimentazione e delle idee di bellezza e sofferenza. Resta ancora da
capire perché il dentista continua a farci tanta paura. “Testa e bocca vengono
percepite come centrali nel nostro senso del sé. Il dolore che rimbomba nel
cranio sembra troppo vicino al centro della nostra personalità. E usiamo la
bocca per attività talmente intime che permettere a un estraneo di violarla ci
fa sentire terribilmente vulnerabili”.
Giulia
Villoresi – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 31 marzo 2017
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