Qualche Tempo Fa ho rivisto la serie televisiva degli
anni Novanta Amo la mia famiglia,
divorandomi la bellezza di 120 episodi in due settimane, e quando sono arrivata
all’ultimo stavo per mettermi a piangere. Sembra impossibile che siano già
passati oltre vent’anni dal 1993: quando lo sceneggiato fu tramesso per la
prima volta frequentavo la scuola media e abitavo con i miei genitori in un
piccolo appartamento dentro un vecchio edificio. Là ogni settimana aspettavamo
il nuovo episodio in tv e ce lo guardavamo insieme dal divano. Ridendo di
cuore. Ci si aspetterebbe che nell’arco di vent’anni e più fossero apparse
serie televisive migliori di questa, ma così non è stato, e a tutt’oggi quel
primo sceneggiato cinese rimane sempre il migliore. Anzi, l’unico ben fatto. E’
difficile sintetizzare in poche parole come fosse la Cina fra gli anni ’80 e
’90: strade tranquille, begli spazi verdi, niente metropolitana e mezzi
pubblici affollatissimi, il primo KFC nell’hotel Dongfeng sul Bund di Shanghai.
Era l’epoca della politica di riforma, del primo sviluppo economico, il periodo
in cui la struttura sociale era totalmente inarticolata. Non essendosi ancora
formate classi sociali, i giovani erano pervasi da un assoluto idealismo e la
gente comune non nutriva alcun risentimento nei confronti dello Stato. C’era
un’atmosfera di libertà, trasgressione e vitalità. Amo la mia famiglia uscì in quel periodo, quando artisti e
intellettuali potevano affrontare questioni nazionali e globali di opere di
intrattenimento. Non c’erano né delusione né scoraggiamento, ma fiducia che
pian piano si sarebbero realizzati tutti i cambiamenti attesi. Lo sceneggiato è
ambientato nella vecchia Pechino, in casa, in casa della normalissima famiglia
Jia. Il vecchio capofamiglia Fu Ming è un ex funzionario e veterano della
Rivoluzione, che neppure dopo essere andato in pensione ha abbandonato le sue
maniere da burocrate. C’è poi il figlio maggiore, che lavora
nell’amministrazione, con la moglie, un’attrice di teatro folk, e la loro
figlioletta. Il figlio minore passa il tempo ad escogitare un modo per fare
soldi in fretta. Ogni personaggio è tratteggiato nei dettagli, i dialoghi sono
brillanti, il contesto storico è rappresentato con ironia, il tono umoristico. C’è
una frase detta da Fu Ming in un episodio che suona così: “Io sono vecchio
ormai, non conto più nulla…”. Simili parole furono proferite da Zhao Zhan
Ziyag, allora segretario generale del Partito, recatosi a incontrare gli
studenti che dimostravano in piazza Tienanmen, ed ebbero una larga eco negli
ambienti intellettuali. A metà degli anni ’90 questi temi erano tabù, eppure
gli sceneggiatori riuscivano argutamente a chiamare in causa personaggi
intoccabili della politica cinese. Allo sceneggiato prendevano parte, per
piccoli cameo, registi e scrittori di fama. A quel tempo non si era ancora
prodotta la frattura fra il mercato da un lato e l’arte e la letteratura
impegnativa dall’altro. Visto con gli occhi di allora, tutto ciò non aveva
niente di eccezionale, ma se ci si volta indietro a guardare, dopo vent’anni,
viene davvero voglia di piangere. Oggi Wen Xingyu che interpretava il vecchio
Fu Ming, non c’è più. Anche lo sceneggiatore, Liang Zuo è morto. L’attrice
protagonista Song Dandan e il regista Ying Da sono divorziati da anni. Lo
scrittore Wang Shuo, presente in alcuni episodi, non scrive più romanzi. Nel
paese e nel mondo sono avvenuti cambiamenti radicali. La gente è diventata più
ricca, ha viaggiato, eppure ci soni anche molto più malanimo, molta più
crudeltà. Sia i giovani che gli adulti si sentono disorientati e la delusione è
diventata il sentimento prevalente. Di fronte a tutto questo, il contrasto con
gli anni ’90 risulta ancora più abbagliante. (Traduzione di lucia
Regola)
Jianing Zhou – Opinioni – Donna
di La Repubblica – 22 aprile 2017-
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