La Moda È Un Territorio
articolato che
assorbe di tutto e lo fa esplodere. Così, da una parte si fa portavoce con
stilisti come Maria Grazia Chiuri, prima donna direttore creativo di Dior –
maison carismatica che per settant’anni ha continuato a ridefinire il concetto
di femminilità attraverso il lavoro e lo sguardo di straordinari designer
uomini – della necessità di una nuova stagione del femminismo. “We should all
be feminist” è lo statement della femminista nigeriana Chimanda Ngozi Adichie
che Maria Grazia ha scritto su una T-shirt bianca che attraversa la sua prima
collezione per la griffe francese. Dall’altra, invece, è capace di produrre e
diffondere, senza filtri, immagini patinate che sconfinano in quella
pornografia violenta e oscura, evocativa di pratiche di sottomissione e possesso
che il grido “Il corpo è mio e me lo gestisco io” esploso nelle battaglie
femministe degli anni ’70 voleva lasciarsi alle spalle E, proprio a ridosso
dello scorso 8 marzo, è rimbalzato su twitter, dopo la diffusione della
campagna della collezione Yves Saint Laurent donna, l’hashtag #YSLRetire
TaPubDegradante. La maison ha immediatamente ritirato (preferendo non
commentare) le due immagini che avevano fatto scattare le proteste. Le
fotografie incriminate che mostrano, in entrambi i casi, il corpo di una modella
offerto passivamente, sono disturbanti perché danno un’allure a quel desiderio
di potere e dominio sul corpo femminile che nei secoli ha preso molte forme. Viene
voglia di rileggere quelle autrici che proprio nei Settanta hanno dato voce con
lucidità e passione a tutte le donne che non solo volevano uscire dagli stereotipi
di genere, ma anche essere protagoniste di un mondo che si stava cambiando
velocemente. Il rifiuto della moda e della bellezza (vestiti informi, zoccoli,
bandita la depilazione) era un gesto di ribellione, un modo di rivendicare la
proprietà del proprio corpo, perché “il femminile non ha luogo se non
all’interno di modelli e leggi emanati da soggetti maschili”, secondo la
lacaniana Luce Irigaray. Scriveva Gianfranco Ferré nel libretto in forma
epistolare A un giovane stilista “la mia
donna è alta, sottile, slanciata, agile, sinuosa e dinamica”. Proponendo un
preciso modello femminile. La moda immagina e progetta corpi. Ma non sempre
insegue solamente la visione di un femminile idealizzato o costretto. Riesce
anche a farsi interprete di cambiamenti e nuove sfide. Tra il grido e il
silenzio scegliamo la parola”, dichiara il Tribunale 8 marzo costituitosi a
Roma nel 1979 che si propone di due voce alle donne e di rivelare i
condizionamenti che impediscono la libertà femminile. Negli anni ’80,
l’immagine delle femministe radicali lascia spazio a nuove donne che si sono
riconciliate con gli uomini e hanno raggiunto il successo professionale. Marisa
Bellisario, prima in Italia a diventare amministratore delegato di una grande
società (Italtel), ne diventa il santino: tailleur Giorgio Armani, pettinatura
punk, sguardo diritto. Un look perfetto per i media. Nelle pieghe della moda
contemporanea è la parola genderless quella
che meglio racconta le nuove forme abitate dagli immaginari, dagli abiti e
dagli oggetti progettati. A riconoscere che il desiderio e di costruirsi
attraversa indistintamente maschile e femminile, on più due generi che
identificano fisicità, mentalità e ruoli diversi, ma due attitudini al vestire,
che non vedono più la divisione tra i sessi o le differenze, ma mescolano le
caratteristiche di entrambi. Il riconoscimento di una cultura dell’apparire
condivisa da donne e uomini rappresenta probabilmente una di quelle articolate
consapevolezze che il femminismo recente ha metabolizzato e ci ha consegnato, e
che possiamo considerare un territorio aperto, pieno di incognite, ma dal quale
ripartire oggi.
Maria Luisa Frisa – Opinioni – La Donna di La Repubblica – 8
aprile 2017 -
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