Liturgia rock per un’icona cult.
Domenica scorsa al Pageant Club di St. Louis in Missouri è stato commemorato
Charles Edward Anderson Berry, per la cronaca Chuck Berry, la prima leggenda
del rock. E anche l’ultima, se si eccettuano i Rolling Stones. “Se si volesse
dare un altro nome al rock and roll, lo di dovrebbe chiamare Chuck Berry”
diceva John Lennon. E infatti con lo straordinario chitarrista nero, morto il
19 marzo all’età di novant’anni, non scompare semplicemente un grande
musicista, un performer geniale, un talento sovversivo. Se ne va il simbolo di
una rivoluzione culturale, generazionale e sociale. Perché il rock and roll è
stato il mito energetico della seconda metà del Novecento. Il ritmo che ha
fatto tremare le fondamenta e i fondamenti della società occidentale. Liberando
le energie dei teenager fino ad allora compresse in una gabbia autoritaria,
dove i ragazzi dipendevano in tutto e per tutto dalle scelte e dalla volontà
dei genitori. Di cui replicavano pedissequamente la vita. Diploma, lavoro,
matrimonio figli. Uno stesso modello per i bianchi e per i neri. Convergenze
parallele tra due universi rigorosamente separati. Finché nel 1956 il rock si
prende la scena sociale e diventa la colonna sonora di uno scossone epocale,
che abbatte in un sol colpo tutte le barriere, di classe, di razza, di genere e
di età. Una hit come Roll over Beethoven,
più che rottamare l’autore della nona
sinfonia, decreta di fatto la rottamazione di un intero armamentario di
valori, sentimenti e comportamenti. Celebrati da voci bianche e melense come
quelle di Pat Boone, di Bing Crosby e di Perry Como. Mentre con il grido rauco
di Berry e con i suoi riff travolgenti, l’America si scopriva nera a metà.
Marino Niola – Miti D’Oggi – Il Venerdì di La Repubblica – 14
aprile 2017 -
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