Sono Queste, In Due milioni e mezzo di case americane, le
ore del cuore in gola e della corsa alla cassettina della posta, quando il
furgone della US Mail si ferma. Nella sua sacca, quel postino può portare la
lettera che in una paginetta cambierà la vita dei propri figli. È la risposta
delle Università americane alla domanda di accettazione. Sono poche succinte
righe, nelle quali si informa, “con rammarico” o “con gioia”, il rifiuto o
l’accettazione che determinano il futuro come sentenze inappellabili. Ricordo
l’urlo di incredula felicità di mio figlio quando al telefono mi gridò: “Mi
hanno preso!” in un college di prestigio, e la più quieta soddisfazione di mia
figlia di fronte alla raffica di “si” ricevuti, con il guizzo di delusione
perché uno di loro l’aveva invece sospesa nel limbo della “lista d’attesa”.
Sistema ingiusto, senza criteri precisi, senza parametri oggettivi, la roulette
dell’ammissione alle università è lasciata interamente alla valutazione di
colui o colei che sceglie e scarta. In una nazione nella quale il titolo di
studio non ha valore legale, dunque tutte le lauree sono, almeno di fronte alla
legge, ugualmente valide, il brand, il marchio apposto sul diploma, fa la
differenza. Tutte le automobili sono in grado di trasportarci dal punto A al
punto B, ma viaggiare a bordo di una Rolls Royce è diverso che viaggiare su una
Panda. Per la grande maggioranza di quei due milioni e mezzo di giovani usciti
dal liceo che tentano la fortuna alla roulette universitaria, le puntate sono
modeste, distribuite su università più accoglienti – dove almeno la metà delle
richieste sono accettate – e più schizzinose, come la più severa di tutte,
L’Università di Stanford, in California, che sulle 43mila e 997 domande inviate
nel 2016 ha accolto appena 2mila e 114 studenti, il 4,8 per cento. Ricordando
che tutti gli applicant erano
comunque giovani con eccellenti curricula e con i mezzi per pagarsi retta e
sostentamento. E se per i figli quella busta recapitata dal postino che, nel
caso delle accettazioni universitarie, suona sempre una colta sola, è la chiave
per un possibile futuro di soddisfazioni e di prosperità, per i loro
genitori è la convalida dei 17 o 18 anni
di sacrifici, di notti bianche, di pannolini, di corsi di flauto, di
rimproveri, di attenzione, di rinunce, di ripetizioni, di colloqui con gli
insegnanti, di palpitazioni, perché i primi a essere accettati o respinti sono
loro, la madre, il padre, la famiglia. La lettera di accettazione è il diploma
da genitori, il rifiuto è vissuto come le loro bocciatura e se questo è vero
per tutti, lo è moltiplicato all’ennesima potenza per le famiglie degli ultimi
arrivati, per i nuovi americani sbarcati di fresco da navi o aerei che hanno
applicato la lezione di generazioni di immigrati prima di loro: che la strada
maestra per il successo nella vita, anche se non la sola maestra per il
successo nella vita, anche se non la sola, passa attraverso la scuola. Non è un
caso se negli ultimi anni sono stati studenti con nomi molto poco “anglo”
coloro davanti ai quali si sono spalancate le porte d’oro dei migliori college.
Sui solo cinque studenti accettati da tutta la top ten delle università
americane, da Harvard a Stanford, da Yale al Mit. Quattro anno nomi africani,
Ekeh, Kwanzu, Ifeoma, Uwamanzu-Nna e, se qualcuno può ogni tanto pescare il numero
fortunato, nessuno viene accettato da tutte le migliori se non ha qualità
formidabili. Per milioni di genitori quella lettera, che colma di felicità
anche chi deve iscriversi a università meno famose, ma non necessariamente
peggiori, è la prova di avere fatto bene il proprio lavoro. Per quelle famiglie
di immigrati è la conferma che l’America resta, nonostante tutto, la terra che
sa guardare al contenuto del carattere e non al nome o al colore della pelle.
Vittorio Zucconi – Opinioni –
Donna di La Repubblica – 22 aprile 2017 -
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