Immaginate Di Entrare in un luogo segreto dove da decine di
milioni di anni non succede nulla. Niente di niente. Tutto è rimasto fermo,
immobile, fossilizzato come in un fotogramma. È come se vi trovaste a entrare
in un tempio dove la natura ha espresso nell’eterno silenzio la sua sacralità
più profonda. Queste sono le nostre sensazioni quando nel 2013, durante una
spedizione dell’Associazione Esplorazioni Geografiche La Venta, ci siamo
affacciati all’ingresso di una grotta sugli altipiani rocciosi dell’Auyan
Tepui, la Montagna del Diavolo, nella regione della Gran Sabana, in Venezuela.
Questa grotta la sospettavamo, la cercavamo da anni, nonostante la scienza ci
dicesse che la sua esistenza era improbabile. Una caverna scavata dall’acqua
nella quarzite, la roccia più difficile da alterare proprio perché composta per
il 95% di durissimo quarzo, non era prevista nei manuali di geologia. Eppure
queste montagne, famose per le altissime cascate come il Sato Angel (979 metri
di caduta libera), sono tra le più antiche della Terra. La roccia che ne
costituisce le pareti ha 1,7 miliardi di anni, mentre i massicci si sono
elevati nelle pianure circostanti non meno di 100 milioni di anni fa. È sempre
e solo una questione di tempo, e l’acqua è in grado di scolpire qualsiasi
materiale, formando anche queste grotte rarissime, le più antiche conosciute.
Varcando la soglia di questo tempio ci siamo trovati di fronte a oltre 20
chilometri di gallerie, scavate nella quarzite di color rosa. E abbiamo dovuto
dimenticare tutto quello che avevamo imparato sulle grotte nelle tante
spedizioni e ricerche dei decenni precedenti. Una cavità come questa non ha
niente a che vedere con le classiche caverne carsiche scavate nelle rocce
calcaree, come Frasassi e Castellana: tutto quello che abbiamo incontrato là
sotto è profondamente diverso da quello che gli speleologi avevano scoperto
fino a quel momento. Nella grotta venezuelana tutto si basa sul silicio, un
elemento che forma il quarzo ma anche l’opale e altre strutture chimiche
particolarissime. Avanzando ci siamo trovati a osservare stupiti meravigliose
cristallizzazioni, ma anche formazioni simili a funghi o uova gigantesche che
era impossibile spiegare con processi puramente fisico-chimici senza
l’intervento di qualche essere vivente. Abbiamo attraversato torrenti rosso
ambrato, per poi trovarci di fronte a laghi iridescenti blu-azzurro. Tutto ci
suggeriva che qualcosa di invisibile e vivo avesse forgiato quelle formazioni
bizzarre e colorato così intensamente quelle acque. In seguito a tale scoperta,
allo stupore iniziale è sopraggiunta la voglia di capire, e quindi la rigorosa
ricerca scientifica. Con un team coordinato dall’Università di Bologna e dal
Kaust dell’Arabia Saudita abbiamo cominciato a studiare questi ambienti per
capire quali forme di vita vi si nascondono. I primi risultati ci dicono che
queste grotte sono abitate da colonie di diversi tipi di batteri, di cui una
grande percentuale sconosciuta, che in milioni di anni sono riusciti a
modificare l’ambiente e con ogni probabilità anche se stessi, divenendo capaci
di proliferare nelle condizioni di oscurità perenne e assoluta. Ancora molto
rimane da investigare, ma è evidente che questa grotta è un vero e proprio
scrigno dove sarà possibile studiare l’evoluzione della vita in condizioni
particolarissime. Per questo, dopo aver condiviso scoperta e ricerche con gli
indigeni Pemòn, che vivono alla base della montagna, abbiamo deciso insieme di
chiamare la grotta Imawari Yeuta, che
significa nella loro lingua “Casa degli Dei”. E così il rispetto e la
meraviglia che uno scienziato come me può esprimere per un luogo come questo si
tramuta in una sensazione di sacro, come se stessimo veramente varcando le
porte del tempo.
Francesco Sauro – Opinioni – Donna di La Repubblica – 25
marzo 2017-
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