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giovedì 6 aprile 2017

Lo Sapevate Che: La paura di morire in realtà è quella di perdere l'amore...



 Poche Settimane Fa ho perso mio padre. Figlia unica, da bambina e da adolescente tremavo al solo pensiero di perdere i miei genitori. Oggi, da adulta trentenne, quando ho saputo della malattia di mio padre ho pianto tutte le mie lacrime, ho urlato tutto il mio dolore, come se mi avessero detto in quel momento che era morto. Così quando la morte lo ha colto, è stato come se nel mio cuore e nella mia mente io l’avessi già vissuta. E dunque, sorprendentemente, ho affrontato l’evento con freddezza. Ma il nodo della questione che desidero porre alla sua attenzione riguarda la differenza, se c’è secondo lei, con cui una persona credente e una non credente affrontano queste gravi evenienze della vita. Sapere se c’è o no una vita dopo la morte a me non interessa, perché ciò che mi permette di sentire vivere mio padre è il suo ricordo quotidiano. Del resto è proprio la memoria che ha reso immortali eventi e persone della storia collettiva. Tradizionalmente si ritiene che chi crede affronti il lutto con maggior facilità di chi non crede. Anche riguardo la propria morte, cosa importa di un’ipotetica vita ultraterrena, quando ciò che più conta è incontrare il paradiso su questa terra?
Alessandra Oneto bruno.lore@alice.it
Il Significato Della Morte e l’eventuale angoscia a essa connessa dipendono dalla cultura in cui si è cresciuti. Per gli antichi Greci, che ritenevano che, al pari di tutti i viventi, l’uomo nasce, cresce, si riproduce e poi muore “secondo l’ordine del tempo”, come scrive Anassimandro, la morte apparteneva all’ordine della natura che la prevede per ogni nato. Per cui, insegnava la sapienza greca: quando la vita ti è favorevole espandila e vivila in tutta la sua potenza, quando si annuncia il dolore e la malattia reggili ed evita di metterli in scena (substine et abstine) . I Greci avevano capito quel che Michel Foucault esplicita: “Non si muore perché ci si ammala, ma ci si ammala perché fondamentalmente dobbiamo morire. Per questo i Greci non drammatizzavano la morte, e quando Paolo di Tarso giunto ad Atene, annunciò che dopo la resurrezione di Cristo anche noi saremmo risorti, gli Atti degli Apostoli (17,31,33) riferiscono che: “Alcuni risero, altri dissero: “Questa storia ce la vieni a raccontare un ‘altra volta”. (..). Ma la morte è comunque lì ad attendere sia gli uomini di fede, sia gli uomini senza fede. Lei mi chiede chi dei due vive l’evento con minor angoscia. Non lo so. Perché, sia pure con la speranza di una vita ultraterrena anche il cristiano, come insegna la sua fede, non può sottrarsi al giudizio di Dio, che non è solo “Misericordia”.ma anche, come mi insegnavano da bambino, terrorizzandomi, “Timore di Dio”. Se poi, senza ipocrisia, scaviamo un po' nella natura dell’angoscia che accompagna la morte, constatiamo che la natura è stata con gli umani, gli unici viventi che sanno di dover morire, abbastanza benevola, perché tutti noi sappiamo di dover mrire, ma la nostra psiche, come insegna Freud, non “sente” la propria morte, non solo quando si è in piena salute, ma anche quando si è in prossimità dell’evento, perché subentrano strane affabulazioni e improbabili immaginazioni di quel che faremo appena guariti, anche nella piena consapevolezza che da quella malattia non guariremo. Può darsi che queste parole i morenti le dicano per confortare gli astanti, i quali non sanno dare un conforto credibile a chi sta lasciando. In questo gioco di inganni c’è qualcosa di inconfessabile in chi sta morendo. Di cosa davvero il morente si angoscia? Del congedo da quello che ha costruito nella vita, dei cari, ma soprattutto dell’amore che, in vita, ha maturato per sé. Questo è il vero dolore. Perché vivendo ci siamo anche innamorati di noi, e quando moriamo dobbiamo dire addio a questo amore. Lo stesso vale per i sopravvissuti, se hanno amato chi li ha lasciati. Quel che piangono è l’amore che hanno vissuto per chi li ha lasciati, e che ora è senza oggetto, perché non ha più quella persona a ci potersi riferire. Non è il defunto che piangiamo, ma amore che ora resta orfano. È sempre di noi stessi e delle nostre mutilazioni che piangiamo, anche quando a morire sono gli altri.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 18 marzo 2017- 

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