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lunedì 10 aprile 2017

Lo Sapevate Che: Che barbarie un mondo senza più giornali...



Mark Hertsgaard È un amico da quando misi le radici a San Francisco 17 anni fa. Lui è rimasto californiano, io in seguito ho vissuto a Pechino e New York, ma non ci siamo persi di vista. E’ una grande firma del giornalismo americano, lo scoprii leggendo un suo libro di tanti anni fa, On Bended Knee, Titolo duro, vuol dire “in ginocchio”, era un saggio di denuncia sull’atteggiamento della stampa americana verso Ronald Reagan. Soggiogata, subalterna, servile o impotente, anche quando credeva di incalzarlo e criticarlo finiva per subire l’agenda di quel grande comunicatore (a cui oggi Donald Trump vuole ispirarsi). Hertsgaard nell’ultimo decennio è stato un grande reporter investigativo sui danni del cambiamento climatico. Di recente, indagando sulla violenza a New Orleans è stato ferito in una sparatoria, e il tema del suo prossimo libro sarà un inno di amore verso quella città derelitta. Mark fece una scelta di vita: anziché lavorare per un giornale preferì essere freelance. Da professionista indipendente si poteva permettere una grande libertà. Sceglieva le inchieste, ci lavorava per mesi, le vendeva a testate autorevoli. I suoi reportage sono usciti sui migliori quotidiani e settimanali. Scelta audace però tutt’altro che rara qui in America. Nella categoria dei freelance c’erano grandi firme, reportage noti e affermati. Il mercato Usa lo consentiva: tanti lettori, alte tirature per quotidiani e mensili, editori dotati di ampie risorse. Mark non è mai diventato ricco, certamente, né questo lo interessava. Però poteva mantenersi con il suo mestiere. L’ho rivisto di recente a San Francisco e la sua situazione è cambiata. “Oggi”, mi ha detto, “come freelance guadagnerei un decimo del mio reddito di dieci o vent’anni fa. Non c’è più mercato. Ho dovuto rinunciare”. Ho accettato un’offerta da un settimanale prestigioso ma poverissimo, The Nation, un magazine della sinistra radicale che gli dà uno stipendio di pura sopravvivenza. The Nation è stata la rivista più vicina a Bernie Sanders durante le primarie democratiche. “Ha milioni di lettori per il suo sito Internet”, mi ha detto Mark, “ma non pagano. I lettori dell’edizione cartacea sono scesi molto, come per tutti”. È una storia che conosciamo, la racconto dall’angolatura di questo amico perché lo considero un maestro di giornalismo serio, rigoroso, di qualità. Quello che ai tempi di Trump viene definito “establishment, élite”. Noi giornalisti dobbiamo fare un esame di coscienza, severo se siamo assimilati alle élite in tutto il mondo, disprezzati o persino odiati dai nuovi populismi. Però il mio amico è tipico, di una condizione economica tutt’altro che élitaria: ha un mutuo da pagare, una figlia da mantenere, se non arriva uno stipendio a fine mese è in difficoltà come chiunque nel ceto medio. Ma più della sua condizione personale, lo preoccupa il futuro di una nazione che sembra fare a meno dei media. “Se vogliamo una democrazia sana”, mi ha detto, “non vedo alternativa al ruolo dei professionisti dell’informazione. Illudersi che l’informazione possa essere gratuita, è come voler vivere a sbafo nella comunità dei cittadini”. Puoi anche prendere l’autobus tutti i giorni senza pagare il biglietto, ma poi hai il diritto di lamentarti se il trasporto pubblico è scadente? Circondati dalle fake-news, dalla manipolazione bugiarda dei potenti, possiamo fare a meno di un giornalismo serio? Lo so, dette da un giornalista queste cose sembrano meschine rivendicazioni corporative. Qualcuno deve dirle, però. La democrazia sta perdendo colpi, inquinata da troppa cattiva informazione. Liberi i cittadini di scegliersi giornali migliori di quelli che gli stiamo offrendo; ma se credono di farne completamente a meno temo che andremo verso le barbarie.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 1 aprile 2017

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