Mark Hertsgaard È un amico da quando misi le radici a
San Francisco 17 anni fa. Lui è rimasto californiano, io in seguito ho vissuto
a Pechino e New York, ma non ci siamo persi di vista. E’ una grande firma del
giornalismo americano, lo scoprii leggendo un suo libro di tanti anni fa, On Bended Knee, Titolo duro, vuol dire
“in ginocchio”, era un saggio di denuncia sull’atteggiamento della stampa
americana verso Ronald Reagan. Soggiogata, subalterna, servile o impotente,
anche quando credeva di incalzarlo e criticarlo finiva per subire l’agenda di
quel grande comunicatore (a cui oggi Donald Trump vuole ispirarsi). Hertsgaard
nell’ultimo decennio è stato un grande reporter investigativo sui danni del
cambiamento climatico. Di recente, indagando sulla violenza a New Orleans è
stato ferito in una sparatoria, e il tema del suo prossimo libro sarà un inno
di amore verso quella città derelitta. Mark fece una scelta di vita: anziché
lavorare per un giornale preferì essere freelance. Da professionista
indipendente si poteva permettere una grande libertà. Sceglieva le inchieste,
ci lavorava per mesi, le vendeva a testate autorevoli. I suoi reportage sono
usciti sui migliori quotidiani e settimanali. Scelta audace però tutt’altro che
rara qui in America. Nella categoria dei freelance c’erano grandi firme,
reportage noti e affermati. Il mercato Usa lo consentiva: tanti lettori, alte
tirature per quotidiani e mensili, editori dotati di ampie risorse. Mark non è
mai diventato ricco, certamente, né questo lo interessava. Però poteva
mantenersi con il suo mestiere. L’ho rivisto di recente a San Francisco e la
sua situazione è cambiata. “Oggi”, mi ha detto, “come freelance guadagnerei un
decimo del mio reddito di dieci o vent’anni fa. Non c’è più mercato. Ho dovuto
rinunciare”. Ho accettato un’offerta da un settimanale prestigioso ma
poverissimo, The Nation, un magazine
della sinistra radicale che gli dà uno stipendio di pura sopravvivenza. The
Nation è stata la rivista più vicina a Bernie Sanders durante le primarie
democratiche. “Ha milioni di lettori per il suo sito Internet”, mi ha detto
Mark, “ma non pagano. I lettori dell’edizione cartacea sono scesi molto, come
per tutti”. È una storia che conosciamo, la racconto dall’angolatura di questo
amico perché lo considero un maestro di giornalismo serio, rigoroso, di
qualità. Quello che ai tempi di Trump viene definito “establishment, élite”.
Noi giornalisti dobbiamo fare un esame di coscienza, severo se siamo assimilati
alle élite in tutto il mondo, disprezzati o persino odiati dai nuovi populismi.
Però il mio amico è tipico, di una condizione economica tutt’altro che
élitaria: ha un mutuo da pagare, una figlia da mantenere, se non arriva uno
stipendio a fine mese è in difficoltà come chiunque nel ceto medio. Ma più
della sua condizione personale, lo preoccupa il futuro di una nazione che
sembra fare a meno dei media. “Se vogliamo una democrazia sana”, mi ha detto,
“non vedo alternativa al ruolo dei professionisti dell’informazione. Illudersi
che l’informazione possa essere gratuita, è come voler vivere a sbafo nella
comunità dei cittadini”. Puoi anche prendere l’autobus tutti i giorni senza
pagare il biglietto, ma poi hai il diritto di lamentarti se il trasporto pubblico
è scadente? Circondati dalle fake-news, dalla manipolazione bugiarda dei
potenti, possiamo fare a meno di un giornalismo serio? Lo so, dette da un
giornalista queste cose sembrano meschine rivendicazioni corporative. Qualcuno
deve dirle, però. La democrazia sta perdendo colpi, inquinata da troppa cattiva
informazione. Liberi i cittadini di scegliersi giornali migliori di quelli che
gli stiamo offrendo; ma se credono di farne completamente a meno temo che
andremo verso le barbarie.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 1
aprile 2017
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