Lungo La Strada che fu il sentiero dei Pionieri
bianchi verso il West, in quel South Dakota dove 100 chilometri sono “vicinato”
e zero grado di massima in gennaio sono un’ondata di calore, vive un giovane
immigrato siriano che da quelle parti è raro come sarebbe un Sioux ad Aleppo,
Sioux Falls, le cascate del Sioux, circondate da miglia e miglia di nulla
piatto come nel film Fargo e dalle
riserve dei Lakota, non soltanto il giovane siriano non è temuto e ostracizzato.
Al contrario è venerato come i nativi veneravano i loro sciamani, i medicine men. Alaa al Nufa, così si
chiama, uno sciamano lo è davvero ma moderno, con una laurea in Medicina
conseguita a Damasco e una specialità in endocrinologia pediatrica che era andato
a prendere nella Università del Sud Dakota. Si era sposato, cinque anni or
sono, con una ragazza del posto. Aveva avuto una bambina e aveva preso un
impegno solenne al momento di partire dalla Siria: aveva promesso alla madre
vedova e alla sorella più grande, che avevano dedicato la vita a lui per
permettergli di studiare, di andarle a prendere e portarle a vivere in America,
magari in una zona un po' meno gelida della Grande Prateria dei Sioux. Invece
oggi Alaa il Siriano ad appena 32 anni è in trappola. Le speranze di procurare
un visto alla madre e alla sorella sono pari alla temperatura media di gennaio
a Dioux Falls, meno di zero. L’ipotesi di andare lui a Damasco per far
conoscere la moglie e la nipotina alla sua famiglia è da scartare, perché il pericolo
di restare bloccato è troppo alto per un musulmano si ritorno da un viaggio in
Siria. Il rischio più grave non è neppure al rientro, ma all’uscita,
perché lui è l’unico endocrinologo per
centinaia di chilometri di prateria
specializzato nel trattamento di un male che affligge sproporzionatamente i bambini e soprattutto i bambini delle
riserve indiane: il diabete. Attorno al suo studio, madri di varia carnagione
formano circoli di preghiera, ciascuna a divinità con nomi diversi, portano
coperte e amuleti, firmano petizioni per trattenerlo. Se lui se ne andasse o
non potesse tornare, migliaia di pazienti resterebbero privi di assistenza,
perché i medici specialisti disposti a vivere e ad esercitare la professione in
uno Stato dove il reddito medio è di un quinto inferiore alla media americana,
e la pratica della medicina ancora una vocazione missionaria, sono pochi. Come
quei bambini diabetici del South Dakota, così milioni di altri americani,
grandi o piccini, dipendono ormai per la loro salute da medici, infermieri,
personale tecnico venuto da lontano. Un medico generalista su tre non è nato in
Usa da lontano. Un medico generalista su tre non è nato in Usa e senza quei
dottori asiatici, africani, indiani, cinesi, europei, la prima linea di difesa
della salute, quella che accoglie l’80 per cento dei pazienti prima di
smistarli a specialisti o di mandarli a casa rassicurati con una pacca sulla
spalla e una ricetta, sarebbe sguarnita. Il 9° per cento dei piccoli ospedali
di campagna, quelli che offrono assistenza primaria, dai parti ai piccoli
interventi chirurgici, sparpagliati nell’immensità del grande ventre americano,
non potrebbe funzionare senza immigrati. E chi ha un bambino con le coliche o
un anziano caduto dalle scale non chiede a quale religione appartenga il medico
del pronto soccorso. Alaa al Nufa lo sa, come sa che probabilmente non rivedrà
più la madre, che ha 82 anni e, ironia crudele, soffre di diabete, visto che
difficilmente lei sopravviverà ai quattro o otto anni dell’amministrazione in
carica a Washington. Un medico islamico siriano resterà per curare i bambini
Sioux. Perché questa è la realtà del mondo di oggi.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15
aprile 2017
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