In Un’Intervista Sull’Espresso (n.52) a Isabelle Adjani, di Angiola Codacci-Pisanelli,
l’attrice fa un’affermazione che i ha incuriosito: “Fare l’attore è rischioso,
perché il tuo inconscio non sa che reciti”. Forse è una battuta per enfatizzare
il lavoro dell’attore o forse no. Recitare può modificare la nostra
personalità, il nostro carattere, e può essere che il nostro hardware consideri
le nostre “recite” come esperienze vere che andranno a implementare/modificare
la nostra memoria e quindi il nostro inconscio, e influire sui nostri
comportamenti futuri? In realtà noi recitiamo per buona parte della nostra
vita, indipendentemente dall’essere attori o no. Lo facciamo spesso con
famigliari, amici, colleghi. Il nostro inconscio distingue i comportamenti
falsi da quelli spontanei? Carlo
Pini carlo.pini@gmail.com
L’Affermazione Di Isabelle Adjani pone una questione seria: che
effetto può avere sul nostro inconscio mettere in scena personaggi che
risultano tanto più autentici quanto più l’attore si identifica con essi? Io
non lo so. Quel che so è che – come ben ha evidenziato Eugen Bleuler, che ha
introdotto nel linguaggio psichiatrico il termine “schizofrenia”, descrivendone
le diverse forme, e dopo di lui il suo allievo Carl Gustav Jung – il nostro
inconscio ospita una popolazione dove trovano espressione aspetti femminili,
maschili, materni, paterni, senili, saggi, scriteriati, folli. Questi aspetti,
o se preferiamo personaggi, sono tenuti a bada dal nostro Io che, tra i
complessi che ci abitano, è quello che ha il miglior rapporto con la realtà.
Naturalmente il nostro Io è in grado di tacitare, ma non di sopprimere questi
abitanti inconsci. Per cui è sufficiente che l’Io, per i più svariati motivi,
allenti le sue difese, che questi personaggi affiorano, prendono la parola e
parlano in vece sua. Sarà capitato a tutti di sentirsi dire il giorno
successivo a una sbronza: “Ieri sera non eri più tu”. Il linguaggio popolare
queste cose le sa e, senza troppi giri di parole le dice. Se quanto detto ha
una sua plausibilità, non è che: “fare l’attore è rischioso perché il suo
inconscio non sa che reciti”, ma: “Puoi fare l’attore se il tuo Io non ha
rimosso e seppellito tutti i personaggi che abitano il suo inconscio”, ma li ha
lasciati vivere e addirittura ha dato loro espressione prestando ad essi, per
il tempo della recitazione, il proprio Io. Se reciti un personaggio che il tuo
Io ha sepolto, la tura recitazione appare inautentica e, anche se tecnicamente
perfetta, si dice che “manca l’anima”. In realtà manca il personaggio che si
interpreta, perché il tu Io, per mille sue ragioni, l’ha rimosso e tacitato
nell’inconscio. (..). L’attore, quando è davvero un attore, dà vita a questi
personaggi ogni volta che recita. E la sua recitazione è tanto più autentica
quanto più vivi e non rimossi sono personaggi che lo abitano. È pericoloso dar
loro vita? Dipende. Se l’Io dell’attore è forte no, se è debole sì “Forte” non
significa un Io tutto d’un pezzo e severo. Questo se mai è un Io debole, che
non regge il confronto con l’altra parte di sé, e perciò si arrocca su di sé, finché
le sue difese tengono. “Forte” è invece l’Io che dialoga con l’altra parte di
sé, che non teme di dar voce ai suoi abitanti inconsci, che siano angeli o
demoni. E questa capacità la si ha in parte per natura, in parte per
educazione. E proprio perché sono in dialogo con le loro parti non egoiche, gli
attori sono in grado di impersonarle nella recitazione, risultando autentici. E
noi, sempre se non le abbiamo rimosse, tramite loro siamo in grado di parlare e
di ascoltare gli altri che sono diversi da noi, e che non avremmo la
possibilità di capire se fossimo uomini, come si suol dire, “tutti d’un pezzo”.
umberogalimberti@repubblica.it – Donna di La Repubblica – 25 marzo
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