La Casa Di Mia Nonna Sara era al quinto piano, il penultimo, di un palazzo degli anni
’50, e aveva due ingressi. Quello a sinistra era affacciato su una cucina
luminosa e spoglia che profumava di legno, di pulito e quasi mai di cibo perché
lei si nutriva di yogurt bianco e zucchine lesse, pietanze troppo eteree per
lasciare tracce. La porta a destra invece apriva su un corridoio lungo e buio,
le cui pareti erano interamente ricoperte di librerie. In verità, in quella
casa gran parte dei muri era tappezzata di libri in prima, seconda, terza fila,
Una vota gli scaffali di fronte alla cucina, carichi all’inverosimile di volumi
che mia nonna reputava meno degni di cura e attenzione, caracollarono
rovinosamente sul pavimento in graniglia, causando un gran fracasso e parecchio
spavento. “Prima o poi doveva succedere”, commentò lei circumnavigando con
sussiego quel disastro, “del resto non erano molto interessanti”. E lasciò così
a intendere che i libri hanno il destino che meritano. Mia nonna, una mattina
di settembre se ne andò, lasciando una scorta di yogurt magri nel frigorifero e
un vuoto che, a distanza di 15 anni, ancora mi lascia senza fiato. Dopo i primi
giorni d’incredulità, arrivò il tempo della spartizione delle sue cose. Mia
cugina prese i libri in tedesco perché, della famiglia, era l’unica a parlarlo
oltre alla nonna, mio cugino quelli in francese perché era in Francia che
voleva vivere. I miei zii e mia madre, smarriti nel loro dolore, lasciarono
quasi tutto lì, su quei ripiani polverosi. Io avevo bisogno di tempo e
solitudine e aspettai che tutti avessero scelto. Poi andai nell’appartamento,
mi sedetti per terra, nel corridoio dell’ingresso, e guardai in su,
domandandomi dove – tra quelle pagine, quei dorsi, quelle parole e
quell’inchiostro – lei si fosse nascosta. Ripetei per giorni quel rito
solitario e necessario poi mi armai di scatoloni e li riempii di tutti i libri
in cui avrei potuto riconoscerla e ritrovala. Ed erano moltissimi, bellissimi e
inevitabili. Ci sono tempi per raccogliere e tempi per fermarsi. Pochi mesi
dopo nacque il mio primo bambino e la vita mi travolse. Traslocammo una, due,
tre volte. Al primo seguì un secondo e poi un terzo figlio. I libri della
nonna, varie centinaia, ci seguirono ovunque nel nostro cammino scomposto e
affannoso, divisi secondo criteri arbitrarie confusi, bisognosi di attenzioni
ma in paziente attesa del momento giusto. Di recente abbiamo deciso di
tappezzare il nostro corridoio di nuove librerie per fare spazio a un
patrimonio che, malgrado abitiamo un’epoca digitale e liquida, lievita a
dismisura. Così, nel riorganizzare i libri per autori, nazionalità, generi, ho
preso in mano i volumi della nonna e li ho ripercorsi uno a uno, trovando la
sua firma chiara e rotonda su ogni prima pagina. E ho ritrovato anche i suoi
appunti in calce al testo, vergati con una scrittura minuta e ordinata, le sue
sottolineature a matita con il righello, ritagli di giornale con recensioni o
articoli, fissati con le graffette di cui aveva cassetti pieni. Nel catalogare
i suoi libri finalmente lei è tornata, con la sua curiosità candida e onnivora,
il suo sguardo penetrante che riconosco nel mio figlio di mezzo, le sue dita
affusolate che scorrevano rapide tra le righe, il suo entusiasmo per la parola
scritta che è la sua eredità più grande e preziosa. Non bisogna aver fretta.
Prima o poi il passato torna, e si accomoda dentro e fuori di noi. Prima o poi
chi non c’è più fa capolino, nel modo che più ci somiglia. Basta mettersi in
ascolto e aspettare.
Claudia
de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 22 aprile 2017-
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