L’Antefatto
Dell’Incidente è una
normale giornata newyorchese. Normale, cioè agitatissima, sempre sull’orlo di
una crisi di nervi. Il lavoro delle prime ore dell’alba (grazie, Mr. Trump) è
stato più frenetico che mai. Poi ci sono state conferenze interessanti su temi
di attualità: Columbia University, Council on Foreign Relations, Asia Society,
Poi ho voluto infilarli il mio allenamento per la maratona a Central Park. La
cena l’ho ingerita in un lampo. Perché per concludere la serata mia mogie ha
preso i biglietti per Sweat, spettacolo di prosa a Broadway esaltato dalle
recensioni, dove l’autrice afroamericana Lynn Nottage mette in scena le
sofferenze di una famiglia operaia del Midwest. Arrivo di fronte al teatro dopo
una giornata nella quale io – come la maggioranza dei miei concittadini – ho
stipato attività che si potrebbero diluire in una settimana. Poiché siamo in
anticipo, per rilassarmi mi concedo un piccolo piacere nefasto: l’unica
sigaretta, quella del dopo-cena, che pratico come un’infrazione anarcoide al
salutismo. Sarà la stanchezza, la cena ingollata in fretta, l’aria freddissima,
la nicotina che entra nei polmoni dopo l’iperventilazione dell’allenamento a
Central Park, o tutto insieme: comincio a sentirmi debole. Ho l’impressione che
il sangue mi defluisca dalla testa, il cervello si svuota, provo un senso di
vertigini. Capisco che potrei svenire, trovo una specie di predellino per le
bici sul marciapiede sul quale sedermi. Mi dirà oi Stefania di avermi visto
bianco come un fantasma. È sempre Stefania a raccontarmi la reazione immediata
di un tassista: frenata, portiera aperta. “Come sta? Serve aiuto? Vuole che la
porti a casa? Se ha bisogno può semplicemente sdraiarsi sul sedile. O devo
chiamare un’ambulanza?”. Da quel momento inizia la parte più comica, dal mio
punto di vista. Il mio malessere dura pochi minuti e poi mi riprendo.
Garantisco che è tutto ok, possiamo andare a teatro. Ma mia moglie è
impressionabile. Lei stessa ricorda l’aneddoto di 25 anni fa, quando nostro
figlio si fece un taglio alla testa giocando a pallone e al pronto soccorso il
medico che doveva cucirgli dei punti si trovò due pazienti su altrettanti
lettini: il bambino ferito e la madre svenuta alla vista del sangue. La comica
si ripete a Times Square. Mentre varchiamo la soglia del teatro improvvisamente
è Stefania a diventare pallidissima. Lo spavento che si è presa per me la
prende allo stomaco. Mi avvisa che sta per svenire. Molto più rapida della mia
reazione, scarta quella di un dipendente del teatro- Si lancia verso di lei per
afferrarla, poi trascina una sedia per farla accomodare, corre a prendere
dell’acqua, è un vortice di premure e di attenzioni. Siamo avvolti da sorrisi
affettuosi, aiuti e attenzioni, un grande calore umano. L’unica richiesta alla
quale resistiamo, inflessibili, è l’ambulanza: guai! Si sa come va a finire
qui, duemila dollari di fattura per dirti che è stato solo un momento di
debolezza. La morale, per noi, di quella serata? New York ti succhia il sangue
e le energie ma ti dà anche molto. In mezzo alla folla anonima e frettolosa di
Time Square, un elido sabato sera di aprile, appena abbiamo avuto bisogno di
aiuto, questa città ha mostrato il suo cuore nascosto. Da brusca e spiccia che
è nei momenti normali, ha gettato la maschera e ci ha abbracciati. Degli
sconosciuti ci hanno fatto sentire a casa nostra, circondati da una umanità
generosa e solidale. Meglio non averne bisogno, certo, ma è bello sapere che la
vera New York è fatta così. Seconda lezione: se devo morire meglio da solo, o
Stefania finirebbe per imitarmi. Terza lezione: abbiamo avuto ragione a
rifiutare l’ambulanza: avremmo perso duemila dollari, soprattutto, Sweat era davvero bellissimo.
Federico Rampini – Opinioni –
Donna di La Repubblica – 15 aprile 2017 -
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