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giovedì 20 aprile 2017

Lo Sapevate Che: La città che vuole tutto può anche dare molto...



L’Antefatto Dell’Incidente è una normale giornata newyorchese. Normale, cioè agitatissima, sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Il lavoro delle prime ore dell’alba (grazie, Mr. Trump) è stato più frenetico che mai. Poi ci sono state conferenze interessanti su temi di attualità: Columbia University, Council on Foreign Relations, Asia Society, Poi ho voluto infilarli il mio allenamento per la maratona a Central Park. La cena l’ho ingerita in un lampo. Perché per concludere la serata mia mogie ha preso i biglietti per Sweat, spettacolo di prosa a Broadway esaltato dalle recensioni, dove l’autrice afroamericana Lynn Nottage mette in scena le sofferenze di una famiglia operaia del Midwest. Arrivo di fronte al teatro dopo una giornata nella quale io – come la maggioranza dei miei concittadini – ho stipato attività che si potrebbero diluire in una settimana. Poiché siamo in anticipo, per rilassarmi mi concedo un piccolo piacere nefasto: l’unica sigaretta, quella del dopo-cena, che pratico come un’infrazione anarcoide al salutismo. Sarà la stanchezza, la cena ingollata in fretta, l’aria freddissima, la nicotina che entra nei polmoni dopo l’iperventilazione dell’allenamento a Central Park, o tutto insieme: comincio a sentirmi debole. Ho l’impressione che il sangue mi defluisca dalla testa, il cervello si svuota, provo un senso di vertigini. Capisco che potrei svenire, trovo una specie di predellino per le bici sul marciapiede sul quale sedermi. Mi dirà oi Stefania di avermi visto bianco come un fantasma. È sempre Stefania a raccontarmi la reazione immediata di un tassista: frenata, portiera aperta. “Come sta? Serve aiuto? Vuole che la porti a casa? Se ha bisogno può semplicemente sdraiarsi sul sedile. O devo chiamare un’ambulanza?”. Da quel momento inizia la parte più comica, dal mio punto di vista. Il mio malessere dura pochi minuti e poi mi riprendo. Garantisco che è tutto ok, possiamo andare a teatro. Ma mia moglie è impressionabile. Lei stessa ricorda l’aneddoto di 25 anni fa, quando nostro figlio si fece un taglio alla testa giocando a pallone e al pronto soccorso il medico che doveva cucirgli dei punti si trovò due pazienti su altrettanti lettini: il bambino ferito e la madre svenuta alla vista del sangue. La comica si ripete a Times Square. Mentre varchiamo la soglia del teatro improvvisamente è Stefania a diventare pallidissima. Lo spavento che si è presa per me la prende allo stomaco. Mi avvisa che sta per svenire. Molto più rapida della mia reazione, scarta quella di un dipendente del teatro- Si lancia verso di lei per afferrarla, poi trascina una sedia per farla accomodare, corre a prendere dell’acqua, è un vortice di premure e di attenzioni. Siamo avvolti da sorrisi affettuosi, aiuti e attenzioni, un grande calore umano. L’unica richiesta alla quale resistiamo, inflessibili, è l’ambulanza: guai! Si sa come va a finire qui, duemila dollari di fattura per dirti che è stato solo un momento di debolezza. La morale, per noi, di quella serata? New York ti succhia il sangue e le energie ma ti dà anche molto. In mezzo alla folla anonima e frettolosa di Time Square, un elido sabato sera di aprile, appena abbiamo avuto bisogno di aiuto, questa città ha mostrato il suo cuore nascosto. Da brusca e spiccia che è nei momenti normali, ha gettato la maschera e ci ha abbracciati. Degli sconosciuti ci hanno fatto sentire a casa nostra, circondati da una umanità generosa e solidale. Meglio non averne bisogno, certo, ma è bello sapere che la vera New York è fatta così. Seconda lezione: se devo morire meglio da solo, o Stefania finirebbe per imitarmi. Terza lezione: abbiamo avuto ragione a rifiutare l’ambulanza: avremmo perso duemila dollari, soprattutto, Sweat era davvero bellissimo.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15 aprile 2017 -

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