Come il pachidermico
radar sovietico
Duga, ammasso di ferraglia costato miliardi di rubli di cui il mondo s’accorse
solo perché – come il ticchettio di un picchio – penetrava sulle frequenze
radio rovinando il rock&roll, così dalla Turchia arriva uno strano segnale
di sottofondo alle democrazie cosiddette occidentali. Un rumore alieno, che ci
coglie incredibilmente di sorpresa, capace come quel ticchettio di squarciare
il caos della grande fanfara populista che promette e minaccia, minaccia e
promette, contando sul voto di pancia di un popolo stremato. Al di là del
risultato ufficiale che ha visto Erdogan all’apparenza vittorioso nel
referendum sulla Turchia presidenzial-sultanato (con stucchevoli
congratulazioni tanto di Trump, quanto di Putin), è stato invece chiaro a noi
europei che quel signore con la esse minuscola di Ankara aveva perso, nella
sostanza, la sua battaglia di muscoli e potere. Una sfida non turca, ma
lanciata a tutti noi. Eppure, nonostante brogli, paura e schede farlocche,
Erdogan rischia di andare sotto e perde nelle città quindi, in partica, nel
Paese. Il fatto grave è che noi europei non ce l’aspettavamo. Perché? Siamo nell’era
del “No” ed eravamo convinti che il “grido contro” funzionasse sempre quando
esso è rivolto alla vecchia e fragile democrazia rappresentativa, nel nome di
un potere più veloce e spiccio. C’è da capirlo: l’Occidente si sente vecchio e
stanco, s’è digerito la vittoria di Trump, lo spocchio di Putin, i missili
della Siria e la minaccia di una guerra nucleare mentre le navi perdevano la
rotta. C’è da capirlo: l’Occidente si sente vecchio e stanco, s’è digerito la
vittoria di Trump, la spocchia di Putin, i missili sulla Siria e la minaccia di
una guerra nucleare mentre le navi perdevano la rotta. Roba da fumetto anni
Settanta, buono per Twitter e i suoi strampalati commenti sul futuro del mondo.
Eppure ci caschiamo sempre. E mentre discutiamo di vitalizi e fondi pubblici
contro le grida di novelli rivoluzionari che a parole risolvono tutto con un
clic, c’è il Duga democratico che viene da Ankara a ricordarci chi siamo
davvero. E a dirci che non può l’Europa prendere lezioni di resistenza dalla
Turchia. O sentirsi sveglia perché là, per fortuna, qualcuno è ancora sveglio e
non si è rassegnato. Serve uno scatto d’orgoglio, più cuore e meno statistiche,
più coraggio e meno sondaggi. Lo scatto significa dirci e dire ai cittadini la
verità: cosa la politica oggi può realmente fare? Cosa, invece, non è più sotto
il suo controllo? Un’operazione che vale più di slogan e promesse che hanno
reso esausto anche l’ultimo dei sognatori. (..). “L’ultimo voto” è quello che
comincia in Francia ma non finisce in Francia. Come una staffetta democratica
passerà per la Gran Bretagna, dove Theresa May sta provando a mutare la natura
del “dissenso” che l’ha portata a Downing Street dopo il suicidio politico di David
Cameron sulla Brexit in “consenso”. Lavora a una mutazione genetica della
componente antisistema che ha gridato “inglesi fuori!” verso una canalizzazione
democratica di quel responso, ascrivendolo al progetto politico dei Tories,
partito conservatore britannico simbolo stesso della tradizione europea
dell’alternanza. Poi sarà la volta della Germania di Angela Merkel, che raccontiamo
nei suoi aspetti meno noti. Con un lungo viaggio in treno nelle periferie
tedesche, a mostrare un Paese non poi così diverso dal nostro. E piuttosto
lontano dallo stereotipo che in Italia ripetiamo sempre, la storica rivalità
post-bellica fra noi e loro, che spazia un po' a tentoni dai mondiali ’82 alla
predominanza finanziaria di Berlino su noi poveri italiani vittime di chissà
quale disegno, se non il ritardo secolare con cui (non) abbiamo affrontato i
nodi strutturali del Paese. Per finire proprio qui da noi. Alla vigilia delle
primarie del Pd, dall’esito scontato in quanto al vincitore, ma non troppo
prevedibili per quanto riguarda l’effetto sul governo e la data delle elezioni.
(..). L’ultimo sforzo di ripartenza di un’Europa che, come spiega Massimo
Cacciari, è al tramonto. E comunque vada a finire non sarà quella che abbiamo
conosciuto. Un’Europa che deve vincere queste semifinali, per poi prendere una
semplice (ma finora impensabile) decisione. Ogni governo, in crisi di peso
politico e credibilità, dovrà cedere parte della sovranità a vantaggio
dell’Unione e quindi dei cittadini europei. Così potremmo arrivare in finale
con il tifo dei turchi democratici che dicono no al Sultano. E ritrovare
un’identità capace di sposare la nostra storia di democrazia e diritti sudaci
con le esigenze dei tempi. Tempi che così moderni non sono. Ma che senza un
antidoto potrebbero avere la meglio. Rendendo la nostra resistenza democratica
più debole e meno autentica di quella turca. Con tutto ciò che questo significa
per noi.
Tommaso Cerno – Editoriale – L’Espresso – 23 Aprile 2017 -
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