Fino A Tre Anni Fa avevo un posto fisso, un contratto a
tempo indeterminato, un badge aziendale, una postazione in un open space. Ero
stata assunta 18 anni prima e pensavo che, in quell’open space, avrei raggiunto
la pensione. Arrivati alla maggiore età, sono pochi i lavori capaci di
entusiasmare ancora, eppure quel senso d’ineluttabile appartenenza era rassicurante.
Tuttavia le mie certezze pensionistiche si infransero un martedì mattina di
fine ottobre, quando la mia capa mi convocò. “Cara Elasti”, disse con tono
forzatamente distaccato, “la società lancerà a breve un piano di esuberi
volontari. È necessario che tre persone lascino spontaneamente l’azienda”. Mi
si chiuse lo stomaco. “Ci chiedevamo se magari tu…ecco, fossi interessata a…:
La sua voce s’incrinò impercettibilmente. “Interessata a?” domandai, perché non
avevo capito o forse avevo capito benissimo, ma avevo bisogno di parole
precise. “A dare le dimissioni”. Impallidii. “Non devi rispondere subito. Hai
una settimana per pensarci, E puoi anche dire di no”. “Questa è l’occasione per
cercare nuove strade che ti somigliano di più”, mi dicevano i miei affetti e la
mia coscienza. Invece io piagnucolavo derelitta, offesa e spaventata. Non mi
capacitavo che, dopo 18 anni di cammino professionale insieme, qualcuno potesse
dirmi: “Ehi, è stato bello. Ora però, cortesemente, spostati da qui”. Mi mancò
il coraggio per accettare e affrontare una promettente e terrificante
incertezza. Dissi: “No, grazie”, consapevole che, in quell’open space, avrei
comunque avuto i giorni contati. Alcuni mesi dopo trovai la forza e una valida,
seppur precaria, alternativa. Lasciai il posto fisso che mi aveva accolto
ragazzetta e mi aveva visto crescere. Sono passata al lato oscuro del mondo del
lavoro: oggi ho una partita Iva e un domani incerto. Faccio varie cose, per la
maggior parte divertenti. Spero di non ammalarmi e difendo, dai feroci attacchi
dei miei figli, la piccola trincea-studio che mi sono ritagliata accanto alla
mia camera da letto. Con il senno di poi sono grata a quel lavoro maggiorenne
per essersi accorto prima di me che non eravamo più fatti l’uno per l’altra.
Qualche settimana fa tuttavia ho visitato la sede italiana di una
multinazionale. Ho incontrato un gruppo di donne (operaie, impiegate,
ingegnere, dirigenti). Mi hanno mostrato uffici, catena di montaggio,
laboratori, mensa. Le ho ascoltate mentre raccontavano del loro lavoro. Parlavano di turni, badge, ferie pagate e
soprattutto un senso di appartenenza orgogliosa, uno spirito di gruppo, un
cameratismo solidal, Erano contente e grate di quello che avevano e che erano.
“Qui stiamo bene”, dicevano, Improvvisamente mi sono ricordata di un tempo in
cui anch’io mi sentito parte di un tutto. Anch’io pranzavo insieme a colleghi
che erano famiglia. Anch’io mi sentivo garantita, protetta, destinata a un
cammino comodo e segnato, seppure prevedibile e a tratti noioso. Ho avuto
nostalgia della macchinetta del caffè, degli orari, dei riti, della complicità,
dello scudo di un marchio da anteporre al proprio nome. Mi sono sentita sola e
priva di reti. Ma non tornerei indietro. E non solo perché il posto per me non
c’è più. Oggi sono più libera e felice di allora. Eppure quella riga dritta e
invalicabile tra i lavoratori garantiti e quelli che non lo sono è una misura
tangibile della disparità di trattamento e tutele tra chi è dentro echi è
fuori. È un muro che, come molti muri, non dovrebbe esistere.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di Repubblica – 18
febbraio – 2017 -
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