Angel Garcìa De Rayos aveva sette anni nel 2008 quando il
raid della polizia lo scosse dal sonno. Ora che ne ha quindici ricorda soltanto
le grida degli agenti, i lampi di luce, il pianto della sorellina più piccola
svegliata nella notte, le proteste del padre, le manette ai polsi della madre
Guadalupe. “Lupita”, così la chiamavano in casa, fu portata via come Angel
aveva visto soltanto nei telefilm. La sua colpa era l’essere una “immigrata non
autorizzata”, una clandestina. Ma un reato Lupida lo aveva commesso. Come fanno
migliaia di “illegali” negli Stati Uniti, si era appropriata del numero di
Sicurezza Sociale di un altro, di un residente legale. Quel numero di otto
cifre, che corrisponde al nostro Codice Fiscale, senza il quale non esisti e
non puoi lavorare. La signora era stata identificata in un’ispezione che
l’implacabile sceriffo dell’Arizona, Joe Phoenix, aveva condotto in un sontuoso
campo da golf di Phoenix, scoprendo che la metà dei 147 dipendenti erano
immigrati non autorizzati. Arpaio sapeva bene che andare a cercare “illegali”
in hotel, ristoranti, centri commerciali, parchi di divertimento in Arizona è
come andare a pescare in pescheria. Hai solo l’imbarazzo della scelta. Lupita
era entrata negli Stati Uniti a 14 anni, guidata dal coyote, dal traghettone di
disperati, attraverso il passo di Nogale, nel deserto. Aveva avuto con lui due
figli. Aveva sempre lavorato, pagando le tasse con il Codice Fiscale di un altro
senza che il Fisco scoprisse che c’erano due contribuenti con lo stesso
identificativo, alla faccia dei computer onniscienti, fino a quel 2008. Per
lei, sarebbe cominciato un viaggio di ritorno lungo otto anni. Dopo tribunali, sentenze,
ordinanze, la sua vita era rimasta nel limbo. L’ICE, gelido acronimo (ghiaccio)
del Servizio Immigrazione e Dogane, ne aveva decretato l’espulsione, ma la sua
situazione di madre di due cittadini americani, di residente da lungo tempo, di
autosufficienza e di non pericolosità aveva creato un compromesso: ogni anno,
in febbraio, Lupita doveva presentarsi all’ICE per controllare che non avesse
commesso reati gravi e ricevere la sospensione della deportazione per un altro
anno. Un ordine Esecutivo firmato dal Presidente Obama l’aveva protetta, come mater familias e aveva collocato la sua
espulsione al fondo delle priorità, dopo i criminali veri. Per questo, anche il
6 febbraio di quest’anno, Guadalupe Garcia decise di presentarsi al controllo.
Non farlo” l’aveva scongiurata il marito. La situazione è cambiata, c’è un
altro Presidente che ha cancellato le disposizioni di Obama e firmato
l’espulsione per tutti gli “illegali” senza distinzione, l’avevano avvertita
gli avvocati dei Centri di Assistenza, Io sono quella di sempre”, aveva
risposto Lupita, “per me non è cambiato niente. Ho fiducia in Dio”. Ma Dio
doveva essere occupato in altre cose quel 6 febbraio. Dalla sede dell’ICE,
Guadalupe Garcia è uscita di nuovo in manette. È stata caricata su un cellulare
guardato a vista da uomini armati. La polizia ha circondato il furgone
spingendo via il figlio e la figlia di 14 anni, che battevano i pugni contro le
lamiere, ed è stata portata via nella notte. Sette ore più tardo, alle 10 del
mattino successivo, è stata consegnata alle guardie di frontiera messicane a
Nogales, proprio da dove era entrata ventuno anni or sono, oltre una Frontera che non potrà mai più
riattraversare legalmente, in una nazione dove non ha mai vissuta da adulta. E
oggi noi regolari, qui negli Stati Uniti, possiamo dormire più tranquilli.
Guadalupe Garcia de Rayos, la pericolosa terrorista che serviva a tavola i
golfisti dell’Arizona, non è più tra noi. Vaya
con Dios, Lupita.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di Repubblica – 25 febbraio
2017 -
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