Da Oggi L’Espresso si scrive di nuovo così come lo scrissero per la prima volta
Arrigo Benedetti e Eugenio Scalfari il 2 ottobre 195. Con la sua “L” che torna
maiuscola. Con la sua “È” che è più di un marchio, è un pezzo di storia del
giornalismo, ma soprattutto un pezzo di noi. Con l’apostrofo messo lì in mezzo.
Forse a dividerle? Come le nostre idee spesso diverse, come i nostri dubbi,
spesso molti, come i nostri punti di vista spesso opposti. O forse a unirle?
Fuse in un solo suono come lo sono invece i nostri valori fondanti: laicità,
libertà, diritti di donne e uomini, uguaglianza, dovere di stare sempre alle
calcagna del potere. Soprattutto se al governo c’è chi più dovrebbe somigliare
alla natura profonda, democratica e progressista, del Paese e del nostro
giornale. Non guardiamo al passato, in quella direzione vediamo il futuro. Lo
scorgiamo nello spirito che animò L’Espresso fin dai suoi primi passi. Materia
viva. Eccentrico e libertino. Cattivo e disincantato. In lotta con la retorica
e i luoghi comuni. Sta nella sua anima, nelle inchieste, nelle battaglie civili
il nostro domani. Ma sta pure dentro i nostri errori, quando ci sono stati, e
ci sono stati. Perché ci abbiamo sofferto e anche lui ne ha sofferto. Noi ci
siamo guardati dentro e ci siamo detti che erano fatti in buona fede, ma
sentivamo che non bastava a farci sentire meglio. Finché abbiamo capito che
avevamo una cosa da fare: provare a replicare oggi quello stesso sforzo di
“diversità narrante” che c’era nel Dna di chi inventò L’Espresso. Per dirla
semplice: suonare un’altra musica. La suonava forte in un’Italia dove si
tendeva a sussurrare (quando andava bene) o tacere. Farsi sentire in quel
silenzio colpevole era l’essenza del suo, cioè del nostro, giornalismo. Il
giornalismo globale, il web, i social, i blog, le tv gridano tutto e subito.
Fanno un gran rumore dove prima c’era appunto il silenzio. Il problema è che
l’effetto è lo stesso. Perché un rumore finisce per mescolarsi ad altri rumori.
E altri ancora. Finisce per essere la versione assordante del tacere d’un
tempo. Buona per indignarsi, ma insufficiente a capire. Ecco: per squarciare il
silenzio era nato questo giornale. Ora spetta a noi capire come squarciare il
rumore. Dove trovare la tonalità nuova capace di raccontare il mondo che
cambia. Noi ci proviamo. Proviamo a dirci che il giornalismo deve uscire dalle
sue “abitudini”, dalle prassi automatiche con cui ha raccontato gli ultimi
vent’anni. Perché è cambiato tutto e noi a volte siamo cambiati meno della
società. Abbiamo il dovere di modulare meglio la voce, se vogliamo che qualcuno
ci senta. Ecco perché rimettiamo lassù, in alto sulla copertina, la nostra
prima testata. Non è un “restyling”. È il contrario: noi vogliamo guardare in
faccia L’Espresso e riuscire a tenere la testa alta. Noi vogliamo metterci alla
prova, sapendo che potremmo non riuscirci. Noi vogliamo confrontarci con noi
stessi con il nome che portiamo, perché quel nome ci metta tanta paura ogni
volta che ci domandiamo: “Abbiamo fatto bene il nostro lavoro”.
Tommaso Cerno – Editoriale – L’Espresso – 26 febbraio 2017-
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