Ho Fatto Invano quattro ore di coda nel Louvre per
rivedere il “più bel quadro del mondo”. La malaticcia luce del febbraio
parigino filtrava dalla piramide, voluta da Mitterrand e disegnata
dall’architetto Pei, e illuminava il nome stampato e grandi lettere
all’ingresso della galleria dedicata alle mostre: VERMEER. La folla dei
visitatori era densa, impaziente come quella dei grandi magazzini Lafayette nei
giorni di liquidazione. L’attrazione esercitata dal nome del pittore olandese
prosciugava in quelle ore la clientela dei negozi sulle vicine rive della
Senna. I suoi quadri banalizzavano la loro eleganza. Il loro lusso. Nella
galleria immersa in una penombra rispettosa delle opere esposte ho cercato
invano la “Veduta di Delft”, appunto “il più bel quadro del mondo”. Non c’era e
non ci doveva essere. Non avevo letto con attenzione il sottotitolo, pur ben
visibile, sul manifesto che precisava “VERMEER e i maestri della pittura di
genere”, cioè dei tratti della vita quotidiana. La “Veduta di Delft” era dunque
esclusa, non era la sua mostra. Era rimasta all’Aia. La carezza di Vermeer la
sentivi lo stesso. L’artista che trasforma “le occupazioni più ordinarie in
riti miracolosi” era presente con dodici quadri (sui trentasette aggiudicatigli
finora). L’epoca d’oro olandese, esplosa nel Seicento, finita la presenza spagnola,
in questi giorni è testimoniata con una sintesi intelligente sulle pareti del
Louvre. Se il più anziano Rembrandt è l’anima severa della pittura di quel
tempo, Vermeer è l’esatto contrario: è la quiete, la vita quotidiana alla quale
sa dare un valore destinato a essere eterno. Le Sue Opere sono accompagnate da almeno una
sessantina di pittori della stessa epoca: Gerard Dou, Gerad er Borch, Jan
Steen, ieter de Hooch, Gabriel Metsu…tutti impegnati a dipingere le figure
umane più comuni accanto a stoffe, tappeti, fili di seta, lasciati in un
naturale disordine. (..). Ma La Visita alla mostra è stata in fondo un
appuntamento mancato. Ritrovare a Parigi la “Veduta di Delft”, tante volte
vista all’Aia, sarebbe equivalso a un ingenuo omaggio alla presenza di Marcel
Proust davanti al quadro che riteneva “il più bello del mondo”. Nella primavera
del 1921 lo scrittore aveva letto che al jeu de Paume c’era una mostra di
Vermeer. Chiese a un amico di accompagnarlo. Era malandato di salute e non
usciva volentieri di casa. Sarebbe morto un anno dopo. Proust conosceva
benissimo il pittore olandese e, stando ai biografi, aveva già immaginato
Bergotte, uno dei grandi personaggi del suo romanzo, davanti alla “Veduta di
Delft”. (..). Ricordare gli episodi della Recherche è un vizio di vecchi
lettori, simile a quello dei vecchi combattenti. Può far sorridere, ma è
difficile evitarlo, quando se ne presenta l’occasione. In Bergotte si tende a
riconoscere Anatole France, ma forse nel personaggio sono riassunti altri
scrittori, compreso lo stesso Proust. Bergotte è affascinato dal “petit pan de
mur jaune”, dalla “piccola ala di muro giallo”. Si trova, rettangolare, a
destra del dipinto, ed è luminosa tra i tetti di ardesia verde blu. Bergotte
pensa che avrebbe dovuto scrivere così: dando numerose pennellate di colore per
rendere le frasi dei suoi romanzi preziose come quello scorcio di muro giallo.
Pochi secondi dopo si accascia morto sul divano. Senonché, come molti altri, ho
constatato al Mauritshuis dell’Aia che quel muro giallo non è in realtà né un
muro né giallo. E’ un tetto rosa, con sopra una finestra ad abbaino. La libertà
di vedere in Vermeer quel che si vuole è sacrosanta.
Bernardo Valli – Dentro e Fuori – L’Espresso – 5 marzo -2017
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