Avevo Una Compagna di scuola che si chiamava Rita. Casa
sua sapeva di buono e si rideva molto. Lei mi piaceva perché era sempre
allegra, inventava storie bellissime e aveva occhi scuri e grandi, capaci di ipnotizzarmi.
Un giorno entrò in classe singhiozzando, trasfigurata dal terrore. Si rifiutava
di parlare. La maestra faticò per scoprire la causa di tanto turbamento che
rimase però un mistero per tutti noi. Rita restò strana e guardinga. A mia
memoria quell’ombra che le aveva rubato la felicità non se ne andò mai del
tutto. Non mi rivelò cosa le fosse accaduto quella mattina e io nemmeno a
distanza di mesi, nemmeno nei pomeriggi d’estate passati a chiacchierare nel
cortile della sua casa, osai domandare. Tuttavia Rita non era più Rita e io non
mi capacitavo che qualcuno o qualcosa potesse portarti via il sorriso e
trasformarti in altro da te. Conobbi Federico nell’agosto dei nostri 18 anni.
Eravamo sfrenati e onnipotenti, certi del nostro luminoso futuro. Lui, ben più
di me, aveva una fiducia granitica in se stesso e nelle proprie effettivamente
strepitose potenzialità. Siamo amici da allora. Di Federico ho conosciuto gli
amori, le vittorie, le sconfitte. L’ho visto gioire, esultare, commuoversi,
cadere, rialzarsi. Ho percorso la sua vita come lui ha percorso la mia.
Recentemente ci siamo incontrati, noi due soli, davanti a un caffè un
pomeriggio di un giorno feriale, rosicchiando al lavoro un po' di tempo a
beneficio di una reciproca autocoscienza. A differenza di Rita, Federico non è
cambiato d’improvviso, una mattina d’inverno. La vita si è insinuata
lentamente, con subdola dolcezza, nella limpidezza spavalda del suo sguardo di
diciottenne. La trasformazione è stata sottile e impercettibile. Ma il futuro
oggi per lui non è più una distesa invitante e spianata. Ora è preoccupato,
disilluso anche a e a tratti, quasi per sbaglio, tra una considerazione amara e
una battuta sarcastica, rispunti l’ironia accogliente di allora, il guizzo
sfrenato e ottimista. Di recente ho avuto una discussione con mio marito. Ero
turbata da un incontro professionale rivelatosi deludente. “Non vivi nel paese
delle meraviglie! Non tutti quelli che incontri possono o vogliono essere tuoi
amici. Esistono logiche diverse da quelle buoniste ed ecumeniche che ti aspetti
tu”, mi ha rimproverato. Già. Ha ragione lui: il mondo è intriso di colori cupi
anche se ci ostiniamo a tappezzare le nostre pareti di rosa. La vita a volte
corrompe. Inquina ficca. I dolori ci spengono, le delusioni ci inacidiscono
quanto le gioie ci illuminano e le conquiste ci migliorano. Rita ha perso in un
giorno, Federico in oltre vent’anni, io, che pure pervicacemente mi ostino ad
abitare nel paese delle meraviglie, lo dimentico ovunque. Perché il candore è
una piantina fragile, una dote preziosa ma deperibile che riceviamo in dono da
piccoli e che inesorabilmente si diluisce, si corrode, si spegne. Il candore è
lo sguardo limpido, la fiducia nel prossimo, la curiosità, la capacità di
accogliere, è la speranza nel futuro, la condizione necessaria per la felicità.
Il candore è ninfa vitale in via d’estinzione, l’antidoto al cinismo e al
disincanto, un superpotere da difendere a tutti i costi. Conservarne i semi,
nonostante l’orrore di una mattina d’inverno, nonostante lo stillicidio di
disillusioni che scava nella nostra essenza luminosa, nonostante la tristezza,
il dolore, la perdita, è dovere di tutti noi, per non spegnerci e per parlare
la stessa lingua di chi, oggi bambino, verrà dopo.
Claudia de Lillo – Donna di La Repubblica – 25 febbraio 2017
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