La Democrazia, ce lo sentiamo ripetere vivendo
fortunatamente in una nazione dell’Europa Occidentale, si esprime nel voto dei
cittadini, ma ci sono altri modi, non previsti da Costituzioni e Leggi, per
votare, e l’America di questo tormentato inizio della Presidenza Trump lo sta
vivendo. E’ il voto di plastica. Il voto con la carta di credito. Fra i
trumpisti e gli antitrumpisti, è scoppiata la guerra dello shopping. Non
potendo più votare, i consumatori e soprattutto le consumatrici, che
frequentano i centri commerciali due volte più spesso dei maschi, esprimono la
loro approvazione o disapprovazione scegliendo di sguainare i loro rettangoli
di plastica nei grandi magazzini che giudicano ostili o favorevoli a Trump. La
guerra della plastica è cominciata quando, prima il Capo stesso e poi una delle
sue coriste, Kellyanne Conway, hanno pubblicamente attaccato la catena
Nordstrom per avere escluso la linea di prodotti firmati da Ivanka, la cocca
del Capo. Nordstrom spiegò che scarpe, indumenti, prodotti di bellezza di Ivanka
semplicemente non si vendevano più da quando il suo nome si era caricato di
significati politici. E immediatamente, le vendite e il titolo in Borsa erano
saliti, spinti dal “voto” degli anti Trump. Ma negli stessi giorni, un’altra
catena celebre, Neiman Marcus, ha assistito a una piccola processione di
clienti che riportavano ai manager le loro carte di credito, indignate per la
decisione simile a quella di Nordstrom. Dalle rarefatte atmosfere del lusso, il
boicottaggio della merce firmata Trump è sceso a grandi magazzini più popolari,
Sears, T.J. Maxx, Kmart, dove i E mio carissimo amico, indignato per le
atrocità americane in Vietnam, decise di punire la Exxon non facendo più
benzina la Cinquecento nei suoi distributori. Il danno economico al gigante dei
carburanti si aggirò attorno alle mille lire alla settimana. Exxon sopravvisse.
Ma il partito delle carte di credito si sta organizzando. Si è dato un nome,
“Grab Your Wallet”, afferrate il vostro portafoglio, ispirato dalla frase
tristemente famosa dell’allora grab,
afferrare impunemente ogni donna per le parti intime, essendo lui un vip.
All’inizio, le elettrici anti Trump avevano stravinto. Le vendite della
mercanzia marcata Icanka – e fabbricata in Cina mentre papà invitava a
comperare solo il Made in America – erano crollate del 70%. Ma al gioco della
polarizzazione, della divisione ringhiosa, si gioca in due e nelle ultime
settimane il partito di Ivanka ha ripreso consenso. Il profumo Eau de Ivankà
(accento sulla seconda “a”) 30 dollari al flacone, è schizzato in testa alle
vendite online di amazon.com. Negli stati americani più fervidamente
repubblicani, non soltanto l’Eau de Trump, ma anche le sue scarpe sono
improvvisamente richiestissime. Una signora del Kentucky, che ha tanta passione
politica quanti soldi da spendere, ne ha acquistate per tremila e cinquecento
dollari. Molti clienti trovano ingiusto che gli affari di Ivanka debbano essere
penalizzati perché il padre è presidente, al polo opposto di coloro che trovano
insopportabile che un presidente faccia pubblicità ai prodotti della figlia,
che si vendono in concorrenza con altri che la pubblicità si devono pagare. Con
la sperabile ritorno alla calma e alla ragionevolezza dei campi opposti, anche
questa battaglia politica a colpi di flaconi di colonia e di tacchi a spillo è
destinata a placarsi. Le scarpe dei padri non devono ricadere sulle figlie.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 11
marzo 2017 -
Nessun commento:
Posta un commento