Siamo quello che parliamo. Molto più
di quello che mangiamo. A dirlo è una ricerca del Pew Research Center, un think tank di Washington specializzato in
analisi delle tendenze sociali. Che ha condotto un’indagine dal titolo What it takes to truly be “one of us”. Cioè, che
cosa serve per essere davvero uno di noi? A sorpresa è emerso in maniera
inequivocabile che la vera chiave di volta dell’identità è la lingua. Più dei
costumi, della cultura, dell’alimentazione e persino della religione. Sono gli
Olandesi i più convinti che per integrarsi sia necessario impadronirsi
dell’idioma di Van Gogh: lo pensa l’84 per cento. Seguite da Germania e
Francia, rispettivamente il 79 e il 77 per cento. In mezzo alla classica ci
sono Giappone e Usa con il 70. I più flessibili invece sono Canada e Italia. Il
primo perché di lingue nazionali ne ha due ed è da sempre di casa in un’identità
plurale. Mentre il Belpaese dà molta importanza anche agli usi e ai costumi.
Agli abiti e alle abitudini. Non a caso lo stile e la buona tavola sono i
tratti caratteristici dell’italianità. A ulteriore conferma di questi dati è
emerso che il campione analizzato considera poco importante il luogo di
nascita. In barba allo jus soli. Evidentemente siamo più ben disposti ad
accogliere gli stranieri che parlano la nostra lingua. Il fatto è che le parole
in comune finiscono per creare sensibilità, valori e abitudini in comune.
Aprono il canale della comunicazione e consentono forme di avvicinamento
reciproco. In questo senso, i risultati dello studio possono diventare uno
strumento prezioso al servizio delle politiche di integrazione. Perché la
lingua non serve solo a dire la realtà ma a costruirla.
Marino Niola – Miti D’Oggi – Il Venerdì di Repubblica – 24
marzo 2017 -
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