Il Titolo Del New York
Times mi fa
sobbalzare “Un’area di Long Island è terrorizzata dalle gang salvadoregne”. La
storia è terribile. Protagonista è una banda criminale che la polizia ha
choamatoMS-13 per il numero dei suoi capi adulti; ci sono anche tanti
minorenni. Di una ferocia spietata, impone la sua legge mafiosa e non esita ad
uccidere. La squadra speciale anti-gang ha arrestato alcuni assassini, altri
restano in libertà. Tutto questo accade in una zona di quella lunga penisola a
Nordest di New York, resa celebre dal romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, perché East Egg con
la favolosa villa di Gatsby è sulla punta settentrionale di Long Island. Un
altro scrittore che la frequentò fu il Premio Nobel Sinlair Lewis. Anche gli
Hamptons – la Portofino dei ricchi newyorchesi – sono un pezzo si Long Island.
L’articolo del New York Times fin
dalle prime righe precisa che tra i capi della gang “dieci su tredici sono
immigrati senza permesso di soggiorno”. Quasi sempre lo sono anche le loro
vittime. Il quotidiano descrive un pezzo di El Salvador trapiantato alle porte
di Manhattan, una no man’s land dove
non c’è lo Stato di diritto bensì una jungla di racker, estorzioni, violenze
quotidiane. Altro shock per me. Le ragioni del mio sconcerto sono numerose. Non
ero mai stato in quell’angolo di Long Island, anche se ho perlustrato altre
zone degradate e povere della grande New York, dove la sicurezza non è
garantita (East Harlem, Staten Island, qualche pezzo di Bronx e di Brooklyn).
Ma soprattutto la mia sorpresa riguarda il New
York Times. Mi ero abituato a leggere sul nostro giornale cittadino una
narrazione diversa: il costante calo della criminalità. Che prosegue da decenni
e nell’insieme ha reso la grande Mela molto più sicura di quando la frequentavo
da ragazzo. È una realtà che il New York
Times spesso sottolinea in chiave polemica, contro il catastrofismo di
Donald Trump che descrive le città americane come teatri di guerra e adora il
termine carnage, carneficina. Altro shock da lettore: non ricordavo da tempo un
titolo di giornale così esplicito nel rivelare l’identità etnica dei criminali.
Quando lasciai l’Italia nel passaggio del millennio, e mi trasferii a vivere in
California, notai subito la differenza: mentre sui media italiani era
consuetudine precisare se il rapinatore era albanese o zingaro, la stampa
americana, soprattutto se libera, nella sua cronaca nera stendeva un rigoroso
silenzio sul colore della pelle o sull’origine nazionale. Di colpo il giornale
più anti-Trump che ci sia, il New York
Times, si adatta ai tempi e rinuncia al politicamente corretto? Per la
verità quell’articolo sulle gang salvadoregne include una critica a Trump,
espressa dalla stessa polizia di Long Island: gli agenti citati dal reporter
sono convinti che la caccia all’immigrato clandestino, se viene condotta in
modo indiscriminato, rende più difficile punire i veri criminali; perché gli
stranieri che sono vittime delle gang hanno ancora più paura di denunciarle,
viso che corrono il rischio di auto-denunciarsi come clandestini ed essere espulsi.
Ma tant’è, quel titolo così esplicito con l’etichetta etnica a ne sembra anche
il segno di un ripensamento. Gli eccessi del politically correct hanno regalato
alla destra e a Trump i voti popolari dalle zone d’America più insicure. L’auto
censura della stampa liberal ha un sapore insopportabilmente paternalista: dà
l’impressione che i giornalisti si arroghino il diritto di decidere che cosa i
lettori devono sapere e cosa no. È anche questa una delle ragioni per cui noi
giornalisti siamo finiti nel mucchio della casta, circondati da diffidenza,
quando abbiamo deciso che toccava a noi “educare il popolo”.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di La Repubblica – 18
marzo 2017
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