Il cuore ha delle ragioni che la
ragione conosce benissimo: sì, perché le emozioni non sono reazioni istintive
che nascono nelle regioni più antiche del nostro cervello. Sono invece
esperienze cognitive vere e proprie, che si formano – attraverso l’accumulo di
informazioni – sotto l’occhio vigile della coscienza. Lo sostiene uno studio
pubblicato su Pnas dal neuroscienziato
americano Joseph LeDoux, docente alla New York University e autore di Ansia (Raffaello Cortina, 2016). “Oggi
la maggior parte degli scienziati ritiene che emozioni come la paura provengano
direttamente dal sistema limbico, quello che contiene le amigdale, non a caso
indicate come “l’organo della paura”. Ma questa ipotesi è smentita da diverse evidenze
sperimentali” spiega LeDoux. “Per esempio è stato provato che subire danni
all’amigdala non ha alcun effetto sulla consapevolezza della paura. E si è
anche visto che, se si presentano a una persona stimoli subliminali che
suggeriscono una minaccia, il corpo attiva la risposta fisiologica alla paura
(per esempio aumentando il battito cardiaco, o la sudorazione, ma la persona
non dichiara di provare paura perché non ne ha l’esperienza conscia”. Di qui la
necessità di spiegare in modo nuovo la natura cosciente delle emozioni. “La mia
teoria è che, invece di avere nel cervello un sistema specifico per la gestione
delle emozioni e un altro, del tutto separato, per gestire le esperienze
cognitive, abbiamo un solo sistema che processa, tutte le esperienze” osserva
LeDoux. “E quest’ultimo sistema è la nostra memoria di lavoro, ossia lo spazio
temporaneo dove conserviamo ciò che stiamo pensando”. Tutto passa di lì: “Per i
contenuti consci ma non emotivi, come quelli che assorbiamo leggendo un saggio,
la memoria di lavoro riceve informazioni dalla corteccia visiva mentre i nostri
occhi scorrono il testo, e queste vengono confrontate con i ricordi, in modo da
poterne riconoscere il significato di quel che vediamo alla lce di quanto già
fa parte della nostra memoria” spiega LeDoux. “Nelle situazioni emotive,
invece, alla memoria di lavoro, oltre alle informazioni sensoriali – ad esempio
l’immagine di un serpente che striscia nell’erba – e ai ricordi – che ce lo
fanno identificare come “serpente” avvertendoci che è velenoso – arrivano i
segnali generati dal sistema limbico. Questi segnali arrivano in modo diretto,
o anche indirettamente, perché possono suscitare una reazione del corpo – la
reazione fisiologica “combatti o fuggi” – e questa regalerà il pericolo alla memoria
di lavoro”. Esiste poi un altro importante ingrediente della paura che, per
LeDoux, dimostrerebbe come questa emozione non sia soltanto istintiva e innata:
“Il senso del sé. Senza di questo, non possono esserci paura, né gioia, né
amore né rabbia. Sei tu che sei spaventato o adirato: se non pensi che qualcosa
stia minacciando proprio “te”, non puoi provare paura. Quindi sono coinvolte
anche aree cerebrali cognitivamente evolute, come la corteccia prefrontale,
dove custodiamo la nostra identità” sostiene il neuroscienziato. Supporre che
di fronte a un pericolo il cervello umano e quello animale facciano le stesse
cose, quindi, è un equivoco. “La scienza ancora oggi confonde la risposta
fisiologica al pericolo con l’ansia e la paura” spiega LeDoux. “Tutti gli
esseri viventi, perfino i batteri, sono in grado di percepire una minaccia e di
rispondere prontamente. Ma questa non è paura o ansia. Si ha paura solo quando
c’è un cervello conscio di sé stesso, che si rende conto del fatto che il corpo
ha dato il via alla reazione fisiologica alle minacce e fa appello alla memoria
per fare le scelte giuste. La paura è solo umana, ed è tutt’altro che innata: è
conscia e cognitiva. Ecco perché per ansia e paura la terapia psicologica,
studiata per l’uomo, batte i farmaci, realizzati con test sugli animali”.
Giuliano Aluffi – Scienze – Il Venerdì di La Repubblica – 17
marzo 2017 -
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