Nel 2011 James Nestor, giornalista freelance di San
Francisco, venne inviato in Grecia a seguire una gara di apnea. Colpito dalle
prodezze “sovrumane” di persone in grado di trattenere il respiro per dodici
minuti e scendere oltre i 200 metri, dove i polmoni si riducono al volume di
un’arancia, decise di entrare in quel mondo in bilico fra sport e incoscienza,
scienza e misticismo, diventando lui stesso apneista. Il risultato della sua full immersion è descritto in Il respiro degli abissi (Edt), dove
Nestor narra anche di viaggi a mille metri di profondità dentro un sommergibile
artigianale e dello studio della vita negli abissi oceanici. “In realtà la
prima impressione che ebbi delle gare di apnea fu negativa” ci spiega Nestor,
“gli atleti rischiavano spesso la vita, salvati solo dai sub. Il tasso di
incidenti e morti in questa disciplina sarebbe inaccettabile in qualsiasi altro
sport. Al tempo stesso, però, restai affascinato da come il nostro corpo sia predisposto
a resistere a condizioni tanto estreme, quasi tornasse nel suo elemento
primordiale. Per questo ho deciso di indagare
provando in prima persona”. “In effetti si tratta di meccanismi
risalenti al nostro lontano passato anfibio, sfruttati da millenni dai
pescatori di perle, corallo o spugne” spiega il cardiologo componente lo staff
medico Fipsas (Federazione italiana pesca sportiva attività subacquee e nuoto
pinnato) Ferruccio Chiesa, che sull’apnea ha scritto di recente il saggio
Fisiopatologia dell’apnea (Mare di Carta(..)). “appena immergiamo la testa in
acqua, la gola si serra per isolare i polmoni, e il battito cardiaco, per
ridurre il consumo di ossigeno, Scendendo in profondità, il sangue si sposta
dalla periferia a cuore e cervello, ma riempie anche i polmoni, impedendone lo
schiacciamento totale. Infine la milza si contrae, per mettere in circolo più
sangue. Per questo in acqua si può resistere 3-4 minuti in apnea più facilmente
che fuori. Ma la disciplina dell’apnea, oggi in pieno boom, richiede molta
prudenza, perché la scarsità di ossigeno nel cervello può provocare improvvisi
svenimenti. Occorre quindi rispettare i propri limiti e mai praticarla da
soli”.(..) Come il biotecnologo francese Fabrice Schnoller, che nuota con
delfini e capodogli, registrandone la vita sociale. “Schnoller è l’unico in
grado di associare i suoni emessi dai singoli animali alle loro interazioni
sociali e tentare così di capire cosa i cetacei si “dicano”. Con lui ho nuotato
in apnea in un branco di capodogli, provando sia l’emozione di essere
avvicinato da femmine e cuccioli, che si sono “presentati” con la loro
combinazione di suoni personale, sia quella di essere “radiografato” dal
potente sonar di un grosso maschio, che ha valutato così se fossi buono da mangiare:
per fortuna non ero nel suo menù”.
Alex Saragosa – Scienze – Il Venerdì di Repubblica - 5 giugno
2015 -
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