Secessione Progressiva,
incontrata. Dalla
partecipazione democratica. Un italiano su due ha smesso di votare, ha rotto
quell’esile patto che lo tiene legato alla rappresentanza istituzionale. Si
astiene. Per protesta, per sfiducia,per indifferenza. Forma un partito
silenzioso e maggioritario. Ininfluente nelle scelte correnti, destinato
tuttavia a condizionare il corso delle tornate elettorali. Come domenica 31
maggio. La secessione degli invisibili infatti scompensa i pesi nelle urne:
pochi decidono per tutti. E’ la regola: chi si assenta non conta nulla. Ma alla
lunga, non può funzionare così. Le liti in politica demotivano e la scarsa
partecipazione impoverisce di molto la democrazia, sottolinea il presidente Mattarella.
I partiti amano poco affrontare il tema dell’astensionismo. E’ lo specchio
della loro inadeguatezza. Ne parlano giusto un po’ tra la chiusura dei seggi e
le prime proiezioni, appena il tempo necessario per intrattenere il pubblico
televisivo. E poi vai con chi ha vinto e chi ha perso. A casa sono rimasti
quasi 9 milioni di persone. Né il decisionismo di Renzi, né l’occupazione di
ogni schermo televisivo da parte di Salvini, né le pizze di autofinanziamento
dei 5 Stelle sono stati strumenti utili per frenare l’emorragia di votanti.
L’offerta pubblica – come dicono gli esperti di marketing – è insufficiente. Le
ultime due sono formazioni populiste in sintonia con gli umori neri
serpeggianti in tutta Europa. I 5 Stelle, sempre meno grillini, sempre più
tele-presenti, non conquistano alcuna delle sette regioni in palio, ma si
attestano su una media del 16 per cento. Condizione invidiabile: non hanno
responsabilità di nulla ma insediano una pattuglia di consiglieri per radicarsi
localmente Sono pronti a raccogliere quei sentimenti di rabbia e di ribellione
verso la politica “ufficiale”, ma la loro inconcludenza pratica li relega nella
sfera del voto inutile. (..). Il Partito Democratico, infine, Renzi non ha vinto queste
elezioni; la “non vittoria” non è paragonabile però a quella di Bersani due
anni fa. Nel 2013 l’ex segretario consumò l’occasione storica di portare al
governo dell’Italia il partito-ditta post- comunista. Quell’esperienza è
tramontata per sempre, nonostante i maldipancia delle correnti di minoranza. La
capacità di interdizione – e di far male al suo leader, considerato un
usurpatore del partito – resta invece alta. Se infatti Renzi avesse mantenuto
la Liguria, avrebbe potuto dichiarare una vittoria netta. Deve accontentarsi di
giocare alla playstation. Godono le minoranze, resuscitate dalla irrilevanza
cui erano state relegate negli ultimi mesi. Il premier-segretario ha
sottovalutato il fuoco amico. Uomo solo al comando ha puntato su un populismo
riformista per depotenziare i populismi dell’antipolitica grillina
eleghista.(..). Rallentare sulla via delle riforme? Quella sì,
sarebbe una sconfitta. Come scrive il “Wall Street Journal” deve continuare con
la sua “ambiziosa agenda di riforme”. Ma il metodo fin qui adottato evidenzia
una crisi con l’elettorato e dentro il suo stesso partito. Punito in Liguria
per una candidatura, nonostante le primarie, capace di lacerare il Pd oltre
ogni aspettativa. Mortificato in Veneto, regione di cui la sinistra, passano
gli anni, non riesce mai a cogliere la complessità. Per ora Renzi resta il
leader. E’ il renzismo che non sta tanto bene.
Luigi Vicinanza - Editoriale www.lespresso.it-vicinanzal –
L’espresso – 11 giugno 2015
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