“Sabb al-nabi” significa in arabo “insultare il profeta”. Il
30 agosto scorso Soheil Arabi, fotografo e blogger di 30 anni, è stato
condannato a morte da un tribunale iraniano perché ritenuto colpevole proprio
di “sabb al-nabi”. I Guardiani della rivoluzione hanno fatto irruzione un anno
fa in casa sua mentre dormiva portando via lui e sua moglie. La donna è stata
rilasciata subito, invece lui l’hanno tenuto in cella di isolamento per due
mesi. Da allora è detenuto nella sezione 2A della prigione di Elvin a Teheran,
nota per essere un luogo di tortura. Corte e avvocati si sono affrontati
spulciando il codice penale. Se infatti l’Articolo 262 del Codice Penale
Islamico prevede la pena di morte per chi insulti il profeta, l’Articolo 264,
dice esplicitamente che se esiste un ragionevole dubbio che l’offesa sia
avvenuta in un momento di rabbia, citando parole altrui o per errore, la pena
di morte deve essere commutata in 74 frustate. A quanto pare Soheil Arabi ha
affermato di aver offeso il profeta mentre non era pienamente in possesso delle
proprie facoltà mentali, ma la Corte Suprema del regime teocratico non vuole
sapere ragioni e mantiene ferma la propria assurda decisione confermando la
condanna a morte. Ma in che modo Soheil Arabi avrebbe insultato il
profeta? Questo è lecito domandarsi.
Soheil Arabi avrebbe commesso “Sabb al-nabi” pubblicando critiche satiriche su
esponenti del regime sul profilo Facebook. E qui mi si gela il sangue.
Per Me I Social Network sono aria, libertà, possibilità di
confronto. Ne conosco i limiti, le insidie, i tranelli, ma riconosco la loro
capacità di riuscire a mettere in collegamento persone e situazioni
lontanissime. Di informare su ciò che accade in luoghi dove l’informazione
“ufficiale” spesso non arriva. Dove a causa della crisi non si mandano
corrispondenti. Dove a causa delle decapitazioni, le organizzazioni umanitaria
hanno paura di far arrivare aiuti e risorse umane. Sono una rete nella quale
c’è chi trova ricchezza e chi, come Soheil Arabi, rimane intrappolato.
Nell’Iran di Khamenei si muore per un post come accade nel Messico dominato dai
cartelli del narcotraffico. Questo Sembrerà assurdo, ma leggendo di Soheil Arabi
e del processo farsa che lo ha condannato a morte in Iran, non ho potuto fare a
meno di pensare a ciò che è accaduto alla “twittera” Maria del Rosario Fuentes
Rubio, giovane medico e attivista messicana, uccisa il 15 ottobre scorso. E
prima di lei, nel 2011, alla Nena de Laredo. Su “Primera Hora”, il giornale
locale di Nuevo Laredo per cui lavorava, firmava come Maria Elizabeth Macias
Castro. Su Twitter e sul cito “Nuevo Laredo en vivo” usava lo pseudonimo
“NenaDLaredo”. Con questo nick scriveva degli affari dei cartelli messicani e
invitava la gente a denunciare fatti legati al narcotraffico. Matisol credeva
fermamente che per contrastare i gruppi criminali bisognasse condividere
informazioni. E sapeva che la parola, una volta condivisa, era più pericolosa
delle armi. Sabato 24 settembre 2011 il suo corpo senza vita fu trovato su una
strada nelle vicinanze di Nuevo Laredo ai piedi del monumento di Cristoforo
Colombo. Sopra al monumento era stata posta la sua testa decapitata. A
ucciderla uno dei cartelli messicani più potenti e feroci, Los Zetas. Questi
sono messaggi inequivocabili: chi parla di organizzazioni criminali muore. Chi
parla di organizzazioni criminali muore, ma muore anche ci critica il regime di
Khamenei. Incredibile come si voglia attraverso arresti, detenzioni, processi,
ammantare di legalità la brutalità di un regime che è il peggior nemico degli
ideali religiosi su cui si fonda. L’unica vera differenza tra Iran e Messico è
che talvolta, in Iran, tra un arresto e la condanna a morte trascorrono mesi in
cui la comunità internazionale non deve avere timore di far sentire la propria
voce. Non dobbiamo temere ritorsioni perché se la sentenza emessa contro Soheil
Arabi dovesse essere eseguita, non sarà possibile più per nessuno scrivere una
sola riga su Facebook o Twitter senza pensare che un luogo di libertà è diventato
un alibi per perpetrare crimini in nome di un Dio che se esistesse fulminerebbe
tutti quelli che stanno uccidendo nel suo nome.
Roberto Saviano – L’antitaliano – 11 dicembre 2014 -
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