Il 14 novembre si è svolto a Torino un pubblico processo
(presieduto da un magistrato come Armando Spataro) il cui accusato era il liceo
classico. Il pubblico ministero, Andrea Ichino, con dovizia di testimonianze e
statistiche, ha presentato queste accuse: uno, non è vero che il classico
prepara meglio anche a studi e professioni scientifiche; due, chi intraprende
studi esclusivamente umanistici rischia di avere una cognizione parziale e
quindi distorta della realtà (ma Ichino ha lealmente ammesso che questo può
accadere anche a chi intraprende studi esclusivamente scientifici e tecnici);
tre, il liceo classico nasce da una riforma fascista, quella di Gentile. Alla
fine la corte ha pienamente assolto il liceo classico, forse perché le accuse
erano formulate in modo troppo perentorio. Per esempio, testimoni illustri
hanno dimostrato che la riforma Gentile riprendeva precedenti riforme di
carattere liberale ed era risultata invisa agli ambienti fascisti. Caso mai la
riforma Gentile aveva il difetto di voler formare una classe dirigente
orientata su studi eminentemente umanistici, senza dare il dovuto rilievo alle
materie scientifiche. Io Ero L’Avvocato difensore e nella mia arringa ho
dato ragione a molte delle accuse, aggiungendo che il classico di Gentile dava
poco spazio non solo alle scienze ma persino alla storia dell’arte, e alle
lingue moderne. Quanto alle lingue dette morte, dopo otto anni di latino i
maturandi dei miei tempi, uscivano dal
classico senza essere capaci, in genere, di leggere Orazio a prima vista.
Perché non si cerca di insegnare a dialogare in un latino elementare come
facevano i dotti europei sino a pochissimo tempo fa? Il maturando classico non
deve necessariamente diventare latinista (a questo ci pensa l’università) ma
deve essere in grado di capire che cosa è stata la civiltà romana, a
identificare le etimologie, a capire le radici latine (e greche) di molti
termini scientifici, e questo si può ottenere anche abituandolo a leggere il
latino ecclesiastico e medievale, molto più facile e familiare. E addestrando a
fare utili comparazioni tra il lessico e la sintassi del latino e quelli delle
lingue moderne. E quanto al greco, perché impegnare lo studente su Omero,
ostico anche per gli specializzati, e non incoraggiarlo a fare traduzioni sul
greco ellenistico, per esempio sui libri naturali di Aristotele, lavorando su
quella lingua che sapeva parlare anche Cicerone? Si Potrebbe Pensare a un liceo umanistico-scientifico,
dove non scompaiono le materie umanistiche. Ricordavo che Adriano Olivetti,
pioniere nella costruzione dei primi computer, assumeva ovviamente ingegneri e
i primi geni dell’informatica , ma anche brillanti laureati che magari avevano
fatto una tesi da centodieci e lode su Senofonte. Aveva capito che gli ingeneri
sono indispensabili per concepire lo “hardware”, ma che per inventare nuovo
“software” (ovvero i programmi) occorreva una mente educata sulle avventure
della creatività, esercitatasi su letteratura e filosofia. E mi chiedevo se
tanti dei giovani che inventano oggi nuove “app” (e riescono benissimo in
professioni che prima non esistevano) non vengano proprio da una formazione
umanistica. Ma non penso solo all’informatica. Avere un’educazione classica
significa anche saper fare i conti con la storia e con la memoria. La tecnologia
sa vivere solo nel presente e dimentica sempre più la dimensione storica.
Quello che ci racconta Tucidide sulla vicenda degli ateniesi e dei Meli serve
ancora a capire molte vicende della politica contemporanea. Se Bush avesse
letto dei buoni storici (e ce n’erano elle università americane) avrebbe capito
perché, nell’Ottocento, inglesi e russi non erano riusciti a controllare e
dominare l’Afghanistan. D’altra parte i grandi scienziati come Einstein avevano
una solida cultura filosofica alle spalle, e Marx aveva esordito con una tesi
su Democrito. Riformiamo, dunque, ma conserviamo il liceo classico perché
consente di immaginare quello che non è stato ancora immaginato e questo
distingue il grande architetto dal palazzinaro.
Umberto Eco – La bustina di Minerva – L’Espresso – 4 dicembre
2014 -
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