Nelle celebrazioni del
centenario della Grande Guerra sono rimasti un po’ in ombra i diari di guerra e
prigionia di Carlo Emilio Gadda, che sono forse la più straordinaria testimonianza
letteraria della prima guerra mondiale.
Non soltanto perché l’ingegner Gadda ha vissuto in prima
persona l’intera tragedia, dall’entusiasmo interventista del principio fino
alla catastrofe di Caporetto e poi all’umiliazione dei campi di prigionia in
Germania, ma perché le riflessioni che l’autore ne ricava sulla natura degli
italiani e del potere sono di bruciante attualità. Forse per questo sull’opera
di Gadda cala da sempre una forma di censura mascherata. Se ne esalta la lingua
letteraria, applicando anche qui categorie fuorvianti, come l’idea di barocco
linguistico che rimanda a una volontà sperimentale e un compiacimento
disdegnati dall’autore. La “derisoria violenza”, come scrive Arbasino, della
lingua di Gadda deriva dalla pura necessità, è al totale servizio del
contenuto. Ed è proprio sul contenuto incandescente dei giornali di guerra di
Gadda che si tende a sorvolare, parlando d’altro. Nelle trincee, per Gadda, si
fissa per sempre il rapporto fra italiani e potere, popolo e classi dirigenti.
E’ la prima occasione vera in cui la patria immaginaria costruita con le lotte
del Risorgimento prende corpo e diventa comunità. Sul fronte si mescolano
culture e dialetti, liguri accanto a siciliani, emiliani e sardi, veneti,
calabresi e lombardi. E’ un popolo ingenuo e ignorante mandato a un
appuntamento fatale della storia mondiale con sciarpe di cartone e moschetti
difettosi da un pugno di comandanti retorici e incapaci, narcisi e
irresponsabili. Fin dalle prime pagine incombe il presentimento dell’inevitabile
disfatta, che si materializzerà la notte del 24 ottobre 1917 a Caporetto. Una
data che ha segnato per sempre la vita dell’autore. Ogni anno, racconta sempre
Alberto Arbasino, all’avvicinarsi della data l’ingegner Gadda s’isolava dal
mondo per rinchiudersi solo nel dolore del ricordo. Ma il suo lutto non è un fatto
privato. Caporetto diventa un simbolo. Il destino di una patria incompiuta,
l’esito finale di ogni avventura dei narcisi al potere, e come tale si ripeterà
a intervalli regolari nella storia d’Italia, dall’8 settembre del ’43 a
Tangentopoli alla svalutazione della lira e chissà domani, toccando ferro, al
default del debito pubblico. I diari di guerra di Gadda sono il prodromo
dell’Italia malata di fascismo perenne descritta in Eros e Priapo. Non per caso nel meraviglioso spettacolo gaddiano di
Fabrizio Gif gli uni precedono l’altro, che ne consegue. Con un finto
fiorentino cinquecentesco, Gadda ci parla ancora del qui e dell’oggi.
Curzio Maltese – Contromano – Il Venerdì di Repubblica – 5 dicembre
2014 -
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