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lunedì 22 dicembre 2014

Lo Sapevate Che: L'ossessione del lavoro al tempo della crisi...



Sono una regista pugliese di 32 anni e vorrei condividere con lei alcune riflessioni in riferimento a una sua risposta: “Poter fare ciò che si è scelto e ci gratifica è già un gran privilegio”. In realtà la ricerca di questo privilegio è ben lontana dall’idea di un “lavoro in cui sentirsi realizzati”, perché oggi, in tempi di crisi globale, la ricerca di un lavoro in se stessa è semplicemente “tutto”. Ora, il punto a cui voglio arrivare è: puù bastare “solo” un lavoro a definire una giovane esistenza? Le che mie riflessioni nascono dal fatto che ho realizzato – con i miei personali strumenti e con l’aiuto del crowdfunding in rete che ci ha procurato una produzione negli USA – un documentario che ho presentato al Parlamento Europeo insieme a gruppi di giovani expats attivi e che ora gira in Italia e all’estero nei Festival, con forte partecipazione emotiva. Frutto di un lungo viaggio durato due anni, attraverso sei città tra Europa e Stati Uniti, il documentario racconta le storie di ordinaria separazione dall’Italia di ragazzi fra i 22 e i 35 anni, emigrati in cerca di auto-affermazione altrove. Nell’espatrio, oltre alla questione lavoro, ci sono molti altri sentimenti in gioco in questa ‘scelta’, che in fondo scelta non è. Infatti il conflitto tra aspettative negate in patria e affermazione altrove ha prodotto una frammentazione dell’identità così radicale che non ci consente di essere “felici”, anche se siamo realizzati lavorativamente. Vite in sospeso, nell’impossibile dibattito interiore, con non pochi sensi di colpa, tra come faccio a continuare a lavorare e insieme cercare di coltivare tutto il resto: amore, amicizia, rapporti umani, sogni, non ultimo quello di contribuire al cambiamento per il mio Paese.
Brunella Fili – www.emergencyxit.it
Nel numero 915 di D rispondevo a un ricercatore universitario (che giustamente lamentava la scarsa retribuzione per anni di ricerca e impegno universitario) che fare un lavoro che si è scelto e che consente la propria autorealizzazione è già un privilegio rispetto a lavori occasionali, mal pagati e soprattutto che nulla hanno a che fare con gli studi, i diplomi, le lauree e i master conseguiti. La lettrice che oggi mi scrive, dopo aver scelto un lavoro che la realizza, mi domanda se è mai possibile che l’autorealizzazione, nella nostra società passi solo attraverso il lavoro, per opportunità all’estero, con “una frammentazione dell’identità così radicale che non ci consente di essere felici” anche se professionalmente realizzati”. Segue la vera domanda: “Perché, oggi, in tempi di crisi globale, la ricerca di un lavoro in se stessa è, semplicemente, tutto?”. La risposta non è difficile. Quando il lavoro è visualizzato nel solo ambito dell’economia, che oggi vive nella morsa tra l’imperativo della crescita da un lato e una società, che per il solo fatto di diventare sempre più tecnologica, comporta inevitabilmente una riduzione dei posti di lavoro, il sogno più antico del mondo, la liberazione dal lavoro, si trasforma in un incubo, e trovare un lavoro il massimo desiderio, perché l’attività lavorativa è diventata l’unico indicatore della riconoscibilità’ dell’uomo. Già nel 1932 il filosofo tedesco Ernst Junger scriveva: “Il lavoratore sta diventando il “tipo umano” che si avvia a occupare la scena della storia, dietro le macerie della cultura e sotto la maschera mortuaria della civiltà”. Infatti, quando il lavoro è imprigionato in quel circolo vizioso in cui si è incagliata la nostra economia, che ci prevede unicamente come produttori e consumatori per garantire la crescita, difficilmente il lavoro può diventare il luogo in cui l’uomo realizza se stesso, la sua capacità, le sue ideazioni, la sua progettualità, perché ciò che incontra è unicamente la sua strumentalità all’interno di un apparato economico diventato fine a se stesso. E qui sorge ineluttabile la domanda: è davvero il caso di assegnare per intero all’economia il compito di dare espressione all’uomo, senza nessun’altro orizzonte di senso che non sia quello del fare produttivo? Se così fosse ci troveremmo di fronte alla più grande alienazione mai conosciuta nella storia, dove a regolare la società resta in campo un solo valore: il valore del denaro assunto a unico generatore simbolico di tutti i valori, con quel che ne consegue in ordine a tutte le possibili espressioni che la vita umana potrebbe dispiegare e che, nell’egemonia dell’economia, vengono conculcate perché a suo giudizio improduttive. Che fare? Nulla finché a regolare la nostra vita ci saranno esclusivamente valori economici e altri non se ne profilano all’orizzonte.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 20 dicembre 2014 -

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