Sono una regista pugliese di 32 anni e vorrei condividere con
lei alcune riflessioni in riferimento a una sua risposta: “Poter fare ciò che
si è scelto e ci gratifica è già un gran privilegio”. In realtà la ricerca di
questo privilegio è ben lontana dall’idea di un “lavoro in cui sentirsi
realizzati”, perché oggi, in tempi di crisi globale, la ricerca di un lavoro in
se stessa è semplicemente “tutto”. Ora, il punto a cui voglio arrivare è: puù
bastare “solo” un lavoro a definire una giovane esistenza? Le che mie
riflessioni nascono dal fatto che ho realizzato – con i miei personali
strumenti e con l’aiuto del crowdfunding in rete che ci ha procurato una
produzione negli USA – un documentario che ho presentato al Parlamento Europeo
insieme a gruppi di giovani expats attivi e che ora gira in Italia e all’estero
nei Festival, con forte partecipazione emotiva. Frutto di un lungo viaggio
durato due anni, attraverso sei città tra Europa e Stati Uniti, il documentario
racconta le storie di ordinaria separazione dall’Italia di ragazzi fra i 22 e i
35 anni, emigrati in cerca di auto-affermazione altrove. Nell’espatrio, oltre
alla questione lavoro, ci sono molti altri sentimenti in gioco in questa
‘scelta’, che in fondo scelta non è. Infatti il conflitto tra aspettative
negate in patria e affermazione altrove ha prodotto una frammentazione
dell’identità così radicale che non ci consente di essere “felici”, anche se
siamo realizzati lavorativamente. Vite in sospeso, nell’impossibile dibattito
interiore, con non pochi sensi di colpa, tra come faccio a continuare a
lavorare e insieme cercare di coltivare tutto il resto: amore, amicizia,
rapporti umani, sogni, non ultimo quello di contribuire al cambiamento per il
mio Paese.
Brunella Fili – www.emergencyxit.it –
Nel numero 915 di D rispondevo a un ricercatore universitario
(che giustamente lamentava la scarsa retribuzione per anni di ricerca e impegno
universitario) che fare un lavoro che si è scelto e che consente la propria
autorealizzazione è già un privilegio rispetto a lavori occasionali, mal pagati
e soprattutto che nulla hanno a che fare con gli studi, i diplomi, le lauree e
i master conseguiti. La lettrice che oggi mi scrive, dopo aver scelto un lavoro
che la realizza, mi domanda se è mai possibile che l’autorealizzazione, nella
nostra società passi solo attraverso il lavoro, per opportunità all’estero, con
“una frammentazione dell’identità così radicale che non ci consente di essere
felici” anche se professionalmente realizzati”. Segue la vera domanda: “Perché,
oggi, in tempi di crisi globale, la ricerca di un lavoro in se stessa è,
semplicemente, tutto?”. La risposta non è difficile. Quando il lavoro è
visualizzato nel solo ambito dell’economia, che oggi vive nella morsa tra
l’imperativo della crescita da un lato e una società, che per il solo fatto di
diventare sempre più tecnologica, comporta inevitabilmente una riduzione dei
posti di lavoro, il sogno più antico del mondo, la liberazione dal lavoro, si
trasforma in un incubo, e trovare un lavoro il massimo desiderio, perché
l’attività lavorativa è diventata l’unico indicatore della riconoscibilità’
dell’uomo. Già nel 1932 il filosofo tedesco Ernst Junger scriveva: “Il
lavoratore sta diventando il “tipo umano” che si avvia a occupare la scena
della storia, dietro le macerie della cultura e sotto la maschera mortuaria
della civiltà”. Infatti, quando il lavoro è imprigionato in quel circolo
vizioso in cui si è incagliata la nostra economia, che ci prevede unicamente
come produttori e consumatori per garantire la crescita, difficilmente il
lavoro può diventare il luogo in cui l’uomo realizza se stesso, la sua
capacità, le sue ideazioni, la sua progettualità, perché ciò che incontra è unicamente
la sua strumentalità all’interno di un apparato economico diventato fine a se
stesso. E qui sorge ineluttabile la domanda: è davvero il caso di assegnare per
intero all’economia il compito di dare espressione all’uomo, senza nessun’altro
orizzonte di senso che non sia quello del fare produttivo? Se così fosse ci
troveremmo di fronte alla più grande alienazione mai conosciuta nella storia,
dove a regolare la società resta in campo un solo valore: il valore del denaro
assunto a unico generatore simbolico di tutti i valori, con quel che ne
consegue in ordine a tutte le possibili espressioni che la vita umana potrebbe
dispiegare e che, nell’egemonia dell’economia, vengono conculcate perché a suo
giudizio improduttive. Che fare? Nulla finché a regolare la nostra vita ci
saranno esclusivamente valori economici e altri non se ne profilano
all’orizzonte.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 20 dicembre 2014 -
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