Sono un’infermiera che lavora nel settore delle cure
palliative e che ha scelto questa professione dopo un’iniziale e promettente
carriera come ingegnere con un lauto stipendio, per assistere a casa i malati
terminali che affrontano sofferenze, paure, angosce legate a malattie che non
lasciano scampo. La morte è ormai il mio quotidiano: quante storie, quanti
abbandoni, quanti dialoghi sulla morte che ogni malato elabora in modo
differente, quasi sempre però rifiutando e negando la realtà. Non c’è medicina
che possa alleviare la sofferenza di una vita che lentamente si spegne, se non
il dialogo costante con chi sta per prepararsi al grande viaggio. Le parole
sono più potenti di qualsiasi medicina che la scienza possa offrire. Oggi si
muore per lo più disperati. Ma come siamo arrivati a questa non accettazione
della vita? Quanti desideri inespressi e sogni mancati ci trattengono in questa
vita? E quanto l’egoismo di chi dice di amarci ci costringe a cambiare il
nostro destino? Ho tante domande e poche risposte. Vago ogni giorno di casa in
casa sperando di trovare qualche risposta alle angosce che mi porto dentro.
Un’epoca che nega la morte, e che nega quindi anche la vita.
Anna Mandelli – anna.mandelli@fastwebnet.it
Per chi si sta avviando verso la fine dei suoi giorni, lei
dice, “le parole sono più potenti di qualsiasi medicina che la scienza possa
offrire”. Ma le conosciamo ancora queste parole? Una volta sì, le conoscevamo,
perché avevamo esperienza della morte. I figli vedevano morre i padri e i padri
non di rado vedevano morire i figli, nelle guerre cadenzate per ogni
generazione. Inoltre c’erano epidemie, pestilenze, frequenti morti infantili e
puerperali. Insomma, la morte era di casa e la nostra psiche aveva le parole
giuste da dire a chi se ne stava andando. Oggi non è più così. Quando uno si
ammala viene affidato a quegli istituti di cura che sono gli ospedali, dove il
linguaggio che si apprende è quello della malattia, mentre le parole che si
perdono sono quelle dell’amore, della comprensione, dell’ascolto. Che tante
volte vale di più delle parole, soprattutto di quelle che tentano di confortare
e che non sono credute né da chi le dice né da chi le sente. Non conosciamo più
le parole che l’imminenza della morte suggerisce al cuore, senza mentire, ma accanto
al letto di un morente le diciamo lo stesso. La sua esperienza le dice che
“oggi si muore per lo più da disperati”. Le ragioni possono essere diverse. La
prima è che ognuno, vivendo, si innamora di sé, e congedarsi da se stessi per
sempre significa perdere quell’amore per sé che, a presindere dal narcisismo, è
la ragione per cui siamo riusciti a vivere e abbiamo costruito il nostro mondo
a cui ora dobbiamo dire addio. Ma la disperazione può anche riguardare il fatto
che ciò per cui ci siamo affannati nella vita, gli obiettivi che volevamo
raggiungere e che magari abbiamo anche raggiunto forse non erano così
importanti come abbiamo creduto o non volevano i sacrifici che hanno richiesto,
perciò abbiamo l’impressione di aver sbagliato tutto. Di fronte alla morte,
infatti, la gerarchia dei valori che hanno regolato la nostra vita subisce molto
spesso un capovolgimento. Forse nulla era così importante come credevamo che
fosse quando abbiamo intrapreso a perseguire i nostri ideali che forse erano
solo abbagli, e per loro abbiamo trascurato quei percorsi di dedizione, di
affetto, di comprensione, di amore che forse sono l’unica ragione per cui siamo
nati. La vita di oggi così affaccendata, così affrettata, così vissuta sempre
di corsa, non si ha dato spazio per assaporarla. E come diceva Max Weber:
“Mentre i nostri vecchi morivano sazi della vita, noi moriamo stanchi della
vita”. Stanchi e insoddisfatti semplicemente perché la vita non l’abbiamo
vissuta secondo le nostre aspirazioni, ma ci siamo messi sul primo binario che
abbiamo trovato che ci garantiva uno stipendio per sopravvivere. E su quel
binario siamo vissuti. E oggi dobbiamo persino ritenere fortunati quelli che
hanno trovato un binario. Se questo è il tasso di felicità che la nostra
società avanzata ci offre, cerchiamo altri modi di vivere per non disperarci
troppo sul letto di morte. Ma soprattutto anticipiamo l’evento della morte che
comunque ci attende, non per deprimerci, ma per avere la giusta misura e il
giusto criterio per distinguere, tra le offerte della vita, quelle che valgono
e quelle per le quali non val la pena di spendere un giorno.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 22 novembre 2014 -
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