La morte fa paura, sempre. Ma ci sono circostanze in cui fa
più paura. Questo accade quando non è possibile comprenderne le cause, quando
abbiamo la sensazione di essere vicini alla verità dei fatti, ma alla fine
quella verità ci fugge. Fa più paura quando abbiamo la sensazione che al posto
del morto potevamo esserci noi, nostro fratello, nostra sorella, nostro padre o
nostra madre. Nostro figlio, il nostro migliore amico. Sul Cucchi il circo
mediatico urla e si divide tra chi ritiene che le sentenze vadano accettate –
perché vivere all’interno del diritto è compito di chi fa pare di una comunità
– ma si possano commentare. Perché commentare una sentenza significa anche
mettere se stessi di fronte ai propri limiti. Significa anche fare i conti con
i propri spettri. La Morte di Stefano Cucchi , e gli esiti del processo in primo
e secondo grado, per la comunità sono stati questo: uno specchio davanti al
quale è stata costretta per anni a soffermarsi senza poter distogliere lo
sguardo. Senza potersi distrarre o trovare consolazione. Stefano era un
geometra di trentun anni, tossicodipendente e spacciatore. Viene fermato in
strada a Roma il 15 ottobre del 2009
dopo essere stato visto cedere delle bustine a un uomo in cambio di una
banconota. In caserma gli trovano addosso 21 grammi di hashish e tre dosi di
cocaina, Al momento del fermo Stefano pesava 43 chili per 176 cm di altezza,
non aveva segni di percosse sul corpo ma era in un evidente stato di
denutrizione. Il giorno dopo, al processo, avrà difficoltà a parlare a
camminare e gli occhi gonfi per degli ematomi. Le sue condizioni peggiorano e
al Fatebenefratelli lo visitano : lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso,
all’addome e al torace. La mascella frattura, emorragia alla vescica e due
fratture alla colonna vertebrale. Stefano rifiuta il ricovero e viene portato
al Regina Coeli. Morirà il 22 ottobre 2009 al Sandro Pertini, al momento della
morte pesava 37 chili. Tredici le persone coinvolte nelle indagini, tra agenti
della penitenziaria, medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. I capi
d’accusa sono cambiati fino a decadere completamente il 31 ottobre 2014, quando la corte d’Appello di
Roma ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove. I Processi Si Fanno nelle aule dei tribunali, non sui
giornali, nei salotti o al bar. Eppure le foto di Stefano Cucchi le abbiamo
viste tutti e tutti sappiamo che Stefano è entrato nelle maglie della giustizia
denutrito ma nulla avrebbe fatto supporre una morte tanto improvvisa. E invece
dopo una settimana, con il corpo pieno di contusioni e con sei chili in meno,
Stefani muore. Una settimana lunghissima durante la quale non ha potuto
incontrare la sua famiglia, anche questo rimarrà un mistero: perché negargli
quell’unica possibile consolazione?. In assenza di prove nessun colpevole e
quindi nessuna verità, a parte la verità processuale, e questo lascia
atterriti. In assenza di prove restano le parole del capo della Procura di
Roma, Giuseppe Pignatone, che con le sue dichiarazioni ha salvato
l’autorevolezza delle Istituzioni: “Non è accettabile dal punto di vista
sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per
cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello
Stato”. Sono parole importanti perché stabiliscono quanto non è superfluo
ricordare, ovvero che tutte le parti dello Stato coinvolte in questa vicenda
hanno porzioni di responsabilità. E ce le abbiamo anche noi che alla notizia
dell’ennesimo spacciatore arrestato tiriamo un sospiro di sollievo senza
riflettere sull’iniquità della legge Fini-Giovanardi, finalmente riconosciuta
incostituzionale, che ha riempito
Le carceri di tossicodipendenti
e piccoli spacciatori ma non ha mai sfiorato i vertici delle organizzazioni
criminali. Salvo poi leggere che dopo una settimana quel ragazzo, che ora tutti
chiamiamo geometra e non più tossico e spacciatore, mentre era affidato allo
Stato, è morto. Il caso Cucchi fa paura perché mette la Democrazia allo
specchio, di fronte alla sua incompetenza.
Roberto Saviano – L’antitaliano – L’Espresso – 13 novembre
2014 -
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