Mi fa un po’ sorridere l’enfasi con la quale si parla di una
plurilaureata che percepisce tre euro l’ora come stipendio. Io mi reputo un
gran fortunato. Infatti ho uno stipendio da ricercatore confermato a tempo
indeterminato e mi entrano in tasca circa 2050 euro netti al mese. Per fortuna
e per scelta faccio il ricercatore. Questo significa che sono “al pezzo” per
cinque giorni ogni settimana. Facendo quattro banali conticini, emerge che in
un mese lavoro 23 giorni, circa 8 ore al giorno e quindi percepisco poco più di
11 euro netti all’ora. Ha ragione quindi chi dice che la mia laurea, il
successivo dottorato di ricerca, la successiva borsa di studio post-dottorato,
il successivo assegno di ricerca, il periodo all’estero, il periodo passato
nell’industria, l’aver vinto un concorso per professore associato, le mie 128
pubblicazioni scientifiche, l’Index pari a 31, le 120 ore di docenza che non mi
spettano, la partecipazione a vari consessi istituzionali non mi hanno giovato
molto, se confrontati al profilo di Speranza A. A oggi, sono un bravo
ricercatore di 47 anni, ma un fallito
dal punto di vista gerarchico e quindi stipendiabile. Ah, dimenticavo. Non sono
nemmeno un genio. Come me ce ne sono tanti altri!
Fabrizio – manettif@unisi.it
Caro professore, penso che lei non abbia nessuna possibilità
di persuadere qualcuno mettendo a confronto la sua condizione con quella di
“Speranza A”, che mi ha scritto nella lettera pubblicata il 25 ottobre su
questa rivista, per dirmi di aver conseguito due lauree e un diploma in una
titolata scuola per chef, e ora si trova a fare la gelataia sei giorni su
sette, per dieci ore al giorno, per tre euro all’ora, con un contratto falso,
dimissioni anticipate firmate senza data, quattordicesima firmata ma non
percepita, 15 minuti di pausa totali, turni di lavoro comunicati a mezzanotte.
Un lavoro non scelto, ma accettato per necessità. Nel suo caso, invece, dop
aver conseguito la laurea, lei ha scelto la carriera universitaria, sapendo in
anticipo che in Italia gli stipendi dei ricercatori universitari sono molto
modesti rispetto ai suoi colleghi stranieri, ma, con la prospettiva di
diventare professore ordinario: la cosa le sembrava accettabile, anche se non
le era ignoto che spesso in Italia non si raggiunge l’ordinariato per merito,
ma per motivazioni estranee al valore delle proprie ricerche. Anche questo
immagino lo sapesse, senza che la cosa l’abbia indotta a rinunciare alla sua
scelta. E quando uno sceglie, conoscendo rischi e pericoli, sulla sua scelta
non può più recriminare. La sua condizione, nonostante il basso stipendio, non
prevede 10 ore di lavoro al giorno, un contratto fasullo, dimissioni anticipate
senza data, 15 minuti di pausa al giorno, turni di lavoro comunicati a
mezzanotte, sei giorni di lavoro sui sette, Inoltre la sua condizione di
lavoro, grazie ai contributi che lei versa, prevede la pensione ,
l’affidabilità qualora dovesse rivolgersi a una banca per un mutuo, e non ultimo
il riconoscimento sociale a chi le dovesse chiedere che lavoro fa. Perchè poter
dire di fare il ricercatore universitario nel Dipartimento di biotecnologia,
chimica e farmacia è altra cosa dal dover dire di vendere gelati al banco. La
differenza tra le sua condizioni di lavoro e quelle di “Speranza A” mi paiono a
qusto punto molto evidente. Ma soprattutto lei non fa un lavoro alienante. E
chiamo “alienanti” tutti quei lavori che non hanno alcuna parentela con i
propri studi e con la propria formazione. E la possibilità di poter scegliere
nella vita il lavoro che più ci gratifica, perché più consono ai propri studi e
alle proprie aspirazioni, in un tempo in cui il lavoro non c’è, e quando c’è, è
spesso nelle forme descritte da “Speranza A”, già questo, nelle condizioni
date, mi pare, se non un privilegio, certo una bella fortuna, conquistata
certamente con sacrifici, ma in ogni modo in ogni suo aspetto gratificante.
Perché è bellissimo istruire i giovani, prepararli per il futuro, raccogliere
la loro riconoscenza e talvolta anche il loro affetto, che sono ricompense
decisamente più significative dello stesso stipendio, e in ogni caso più
gratificanti di un “grazie” che si può ricevere (ma non è detto) da clienti
sconosciuti quando dal banco si porge loro il gelato richiesto. Non se ne abbia
a male, ma la sua condizione, nel programma attuale in cui versa l’Italia e di
conseguenza anche l’Università, nonostante il modesto stipendio, è pur sempre
una condizione di privilegio. Ma lo si capisce solo se non si misura tutto
sulla paga di fine mese,
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 15 novembre 2014
Ci sono un paio di cose che non mi tornano nel discorso di Galimberti: 1) se uno inizia la carriera universitaria sapendo che il suo stipendio sarà misero, non significa che non si possa fare una critica costruttiva e soprattutto non significa che si debba rimanere in eternità con quello stipendio. Le cose dovrebbero essere organizzate in modo tale che il guadagno, sia meramente economico che non, sia commisurato alle attività svolte; 2) avere una collocazione di un certo tipo dal punto di vista lavorativo non è detto che corrisponda ad un privilegio. Potrebbe anche essere una posizione conquistata; 3) in modo meschino, mi verrebbe di dire che la vita è fatta di scelte e le scelte fanno la vita: anche Speranza A ha deciso di scegliere il suo lavoro.
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