Mediaticamente efficace assai, la polemica sui “poteri forti”
– indirettamente sollevata da Susanna Camusso con l’intervista a Roberto Mania
di “Repubblica” – suonerebbe vecchia e stucchevole, risaputa e fuori luogo, se
non rimandasse ad altre questioni ben più preoccupanti e complesse. Anche
perché i poteri forti (..) non ci sono più. Lo era Mediobanca, centro
nevralgico del capitalismo all’italiana, punto di intreccio delle tre banche di
interesse nazionale, pubbliche e azionista di riferimento di Montedison,
Bastogi, Generali, il “salotto buono”; lo era l’Iri, da cui dipendevano le Bin,
che non a caso scatenò una guerra contro la Mediobanca di Cuccia; lo era la
Banca d’Italia, che condizionava la politica economica dei governi; lo era la
Fiat, colosso monopolista nazionale, perno di ogni sviluppo (il boom, le
autostrade) e grande elettore della Confindustria, il sindacato degli
imprenditori privati. Oggi, Quasi Inutile Dirlo, la Fiat si chiama Fca ed
è alla Borsa di Wall Street; Mediobanca è una
banca d’affari come tante; la banca d’Italia, che pure ha fornito truppe scelte
alla Repubblica (Carli, Ciampi, Draghi, Saccomanni…) ha le unghie spuntate
dalla moneta unica e dalla Bce; il salotto buono ha smobilitato e in quanto a Confindustria
fa sorridere il povero Squinzi che strilla contro i pubblici sprechi e non
riesce nemmeno ad averla vinta su quelli della sua organizzazione. Insomma,
questi poteri sono talmente ex forti che Matteo Renzi si può permettere di non
filarseli nemmeno e di ignorare Cernobbio, viale dell’Astronomia, via
Nazionale, i sindacati (“Disintermediando che male ti fo”, “Espresso” n.43)
contribuendo così a renderli sempre più deboli e isolati. Ma non c’è solo
questo. Qui da noi si parla molto di riforme, e non del fatto che non c’è più una classe
dirigente con un’idea nobile e solida di paese come quella che maturò nella
Resistenza e prese il comando alla fine della guerra. Mancano anche molte delle guerra. Mancano anche molte delle grandi
scuole dove negli anni successivi la nuova classe dirigente si è forgiata
(Mediobanca, Iri, imprese pubbliche e private, appunto, che sono andate via via
ossificandosi, mentre partiti e sindacati sembrano aver perso presa sulla
società perché non riescono più a intercettarne i mutamenti. Non è un caso che
i nuovi politici si siano formati nelle amministrazioni comunali, dal premier
al ministro degli Esteri al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. C’E’ Stato Un Momento negli anni Novanta in cui sembrava che una riforma portasse un soffio
vitale in un Paese che stava diventando vecchio e sempre più bloccato: le
privatizzazioni. Poi però i privati hanno trovato comodo tenersi i servizi
pubblici e piuttosto che favorire la concorrenza non hanno mollato i privilegi
di comode rendite di posizione. Si riuscì in quegli anni anche a liberare la
“foresta pietrificata del credito” (Giuliano Amato), ma sopravvissero le
fondazioni bancarie di proprietà pubblica. Ed è davvero curioso che nei suoi
primi atti di governo Renzi abbia sì raddoppiato il prelievo fiscale alle une,
le fondazioni, ma anche firmato un decreto-regalo agli altri, i concessionari
autostradali, che manco la Dc dei tempi d’oro. Poteri forti? Mah. In questo
deserto di classe dirigente spiccano piuttosto la camarille, le lobby
casarecce, le corporazioni annidate anche nella pubblica amministrazione e
nella magistratura, Tar e Consiglio di Stato) che strillano, condizionano, si
oppongono ogni vota che ne viene messo in discussione il primato o sfidato il
potere di veto. La Germania – di Schroeder o di Merkel che sia – pratica da
sempre la “cogestione” in economia e in politica, cioè la corresponsabilità
nella guida dell’azienda o del governo. Il Bel Paese ha inventato la
“concertazione” estendendola a ogni atto quotidiano: è finita che ciascuno
suona il suo strumento senza che a nessuno, come nel film di Fellini, sia
riconosciuto il potere di dirigere l’orchestra. Ora, se il problema riguardasse
solo il Pd e sindacato, Renzi e Camusso, potremmo leggerlo come una delle tante
scaramucce a sinistra; ma visto che la questione è nazionale e riguarda il
paese e il suo futuro, sarebbe il momento di pensarci. E di cominciare a
preoccuparsi.
Twitter@bmanfellotto – Bruno Manfellotto – L’Espresso –
13 novembre 2014
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