Milano. Sarà pur vero che il lavoro nobilita l’uomo ma oggi
spesso non basta a garantirgli una vita decente. Lo dimostra la diffusione di
una nuova categoria sociale, quella dei working
poor, i lavoratori poveri. Persone
che, pur avendo un lavoro più o meno stabile, non riescono a superare la soglia
di povertà (stando ai dati Istat, su base mensile si va dai 736 agli 820 euro
al mese netti, a seconda che si viva in un piccolo centro o in una grande
città, mentre su base oraria la soglia individuata è di 6,9 euro l’ora per i
dipendenti e di 4,8 euro l’ora per gli autonomi, valore calcolato considerando
una stima sull’evasione fiscale media). In Italia, secondo uno studio del 2014
della Commissione istruttoria per le politiche del lavoro e dei sistemi
produttivi presentato al Cnel, i working
poor sono circa 2 milioni tra i lavoratori dipendenti e circa 756 mila tra
gli autonomi. E se ne contano di più tra i giovani, le donne e gli stranieri.
Mentre i settori più a rischio sono l’agricoltura, i servizi alle famiglie,
l’informazione e la comunicazione. In questi numeri, la crisi fa la sua parte:
nel triennio 2009-2011 si è registrato un incremento di 353 mila lavoratori
poveri, parallelo a una netta riduzione del lavoro dipendente. E, viste le
tutele che questo lavoro ha da noi, non stupisce che in Italia la distribuzione
dei working poor sia un po’ diversa
che nel resto della Ue. Quelli con un lavoro dipendente sono meno rispetto alla
media europea (12,4 per cento contro il 17 per cento Ue). Complessivamente
invece i lavoratori poveri del Belpaese sono il 10,6 per cento, e la
percentuale potrebbe essere maggiore se includesse chi lavora in nero. Anche
così, comunque, fanno peggio di noi solo Polonia, Grecia e Spagna mentre stanno
meglio i Paesi Scandinavi, Francia, Germania, Austria, Belgio, Olanda e persino
Portogallo, Slovenia e Repubblica Ceca.
Gianluca Baldini – Il Venerdì di Repubblica – 14 novembre
2014
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