E’ ormai usuale il lamento sulla “qualità” della nostra
classe politica, delle nostre élite dirigenti, sugli ineffabili spettacoli che
di volta in volta ci elargiscono i nostri dibattiti parlamentari. Certo, non si
vedono in circolazione né i Moro, i Fanfani, i Marcora, né gli Ingrao, gli
Amendola, i Berlinguer e neppure i De Martino o i Craxi. Ma scherziamo?
Nostalgia di prima Repubblica?! Ogni epoca conosce modi propri di formazione
dell’élite, che è affatto ozioso giudicare secondo criteri astrattamente
culturali. Una classe politica può formarsi in un contesto di “conflitto
globale”; in anni decisivi si è
costretti a prender parte anche sotto il profilo mitico-ideologico. I caratteri
di tale conflitto si riflettono all’interno di ciascuna delle parti in lotta
nella dura competizione tra “correnti”. E’ in essa che si forma una élite
dirigente necessariamente plurale, dove ciascun membro dispone di un proprio
“inalienabile” patrimonio organizzativo e di consensi. La Situazione
è radicalmente mutata, almeno nell’Occidente, con la fine della terza guerra
mondiale tra i due Titani vincitori della seconda. Gli schieramenti politici si
vanno necessariamente confondendo; le leadership assumono un carattere
occasionale e pragmatico; l’importanza della struttura organizzativa si
“liquida”; decisiva diventa l’immagine e il carisma “a breve” di chi si
dimostra davvero capace di catturare il voto. Piaccia o no, è indubbio che una
figura come quella di Renzi incarna tale “destino”. Ne consegue che la
presenza, intorno a lui, di personalità politiche in qualche modo “autonome”
non rappresenterebbe che una frenante memoria del passato. La corte può esser
formata anche dalle donne e dagli uomini più nobili e onesti, ma corte deve
restare. Forse che non anelavano a questo esito anche i post-comunisti? Non era
questo il sogno di Berlusconi? Eccoli accontentati. Ma, come spesso mi tocca di
ricordare, la storia è il regno delle eterogenesi dei fini. La dissoluzione
dell’organizzazione politica, che va di pari passo con la concentrazione del
potere nelle mani del Capo, a sua volta costretto a inseguire il consenso a
breve, ha come inevitabile conseguenza, nei fatti, il rafforzamento delle
strutture e dei poteri burocratici. Solo un Politico plurale, competente,
autorevole a tutti i suoi livelli è in grado di “interfacciarsi” con la
permanenza e stabilità, che restano per forza caratteristiche dell’assetto
burocratico. E se si pretende di trasformarlo a propria immagine non solo si
scateneranno reazioni ben difficili da governare, ma si contribuirà al
definitivo sfascio dell’amministrazione, “politicizzandone” ulteriormente le
funzioni. Servizio sanitario pubblico, sistema delle società partecipate, ecc.,
insegnano pure qualcosa, non è vero? La Deriva plebiscitario-populistica ha sempre
bisogno di qualche nemico. E oggi la cosiddetta burocrazia sembra la figura più
titolata a svolgere il ruolo. Da certi discorsi l’ideale parrebbe uno spoil sistem integrale – e cioè l’ideale
dei peggiori rappresentanti dell’antica partitocrazia. Riformismo in senso
etimologico davvero! Ritorno integrale al tanto vituperato modello di un tempo!
Ben diversa dovrebbe essere la strada: formare una burocrazia autonoma quanto
responsabile, capace, cioè, di rispondere alle domande della comunità cui
appartiene e mai immune dagli effetti del proprio operare. E, dall’altra parte,
selezionare un ceto politico che della complessità della macchina statuale
conosca i linguaggi e sia in grado di trasformarli proprio perché li parla. Il
che significa norme e leggi per limitare le normali tendenze auto-referenziali
degli uni e degli altri, per combatterne rendite e conservatorismi, norme e
leggi, non “grida”, per semplificare, accelerare, deconcentrare, promuovere
tutti i residui “spiriti” sopravvissuti al tremendo, ultimo ventennio in questo
Paese. Ma certo è più facile proclamare inimicizie, che creare alleanze intorno
a tali obiettivi.
Massimo Cacciari – Parole nel vuoto – L’Espresso – 13
novembre 2014 -
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