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lunedì 25 agosto 2014

Lo Sapevate Che: Reporter di Guerra Strage Continua...



 Raccontare significa rischiare. E’ sempre più alto il numero di giovani, giovanissimi reporter di guerra, giornalisti, fotografi che, quasi per missione e senza alcuna protezione né garanzia, partono per raccontare da vicino le dinamiche che hanno scelto di conoscere. Non restano negli alberghi, dove la stampa internazionale è spesso assiepata in attesa dell’ultima agenzia. Notizia preceduta e seguita immediatamente da altre, uguali, indistinguibili.(…) Ecco, questi reporter scendono in strada, abbandonano la prudenza, perché l’informazione coincide con le loro vite e provare a mostrare, attraverso il proprio sguardo, un angolo di mondo, diventa uno scopo, non più e non solo un lavoro. Spesso Il Coraggio necessario per raccontare si misura solo quando per farlo si muore. Simone Camilli,35 anni, Giornalista della Associated Press, è morto lo scorso 13 agosto, facendo il suo lavoro di reporter coraggiosamente, ovvero andando dentro le cose. E’ morto a Beit Lahya, nel nord della Striscia di Gaza, insieme al suo interprete e a tre artificieri palestinesi, mentre filmava un’operazione di disinnesco di una bomba lanciata dall’esercito israeliano nei giorni di conflitto con Hamas. (..). Il padre era un giornalista Rai e con un po’ di fortuna avrebbe potuto seguire le sue orma, ma non l’ha fatto. “(..) devo andare dove succedono le cose” e questo, per chiunque voglia raccontare, è un breve ma necessario assioma, da scolpire nella mente, perché resti indelebile. (..). Queste parole si annodano a quelle di Camille Lepage, un’altra giovane reporter morta il 13 maggio scorso. “Non posso accettare – ha scritto Camille – che certe tragedie vengano tenute sotto silenzio perché nessuno può farci dei soldi. Così ho deciso di fare da sola, di portarle alla luce, non importa a che prezzo”. E il prezzo che ha pagato è stato altissimo. Camille è stata uccisa a 26 anni mentre stava filmando un reportage nella Repubblica Centrafricana.(..). Il Committente To Protect Journalists ha contato dall’inizio del 2014 quasi trenta tra giornalisti, reporter, fotoreporter, fotografi e operatori uccisi sui fronti di guerra in tutto il mondo. Non solo in Israele e nei Territori Palestinesi, ma anche in Iraq, Siria, Ucraina. (…), ma ci hanno raccontato storie, ci hanno raccontato vite. Ecco perché il loro lavoro è fondamentale: quando un morto smette di essere l’ennesimo ma diventa unico, quando un morto ci viene raccontato da vivo, quando ci viene mostrato un percorso alternativo, è solo in quel momento che siamo, da osservatori, davvero in grado di capire l’orrore della guerra. La sua assurdità, la sua crudeltà. Queste morti spesso sono casuali, o meglio, sembrano casuali. Una mina esplosa, un proiettile vagante. Altre arrivano dopo condanne, vere e proprie esecuzioni. Perché raccontare, fotografare, filmare provare a capire, mostrare le contraddizioni, offrire ipotesi, punti di vista, interpretazioni, resta sempre la cosa più pericolosa che si possa fare, a qualunque latitudine.
Roberto Saviano – L’Espresso – 28 agosto 2014 -

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