Raccontare significa rischiare. E’ sempre più alto il numero
di giovani, giovanissimi reporter di guerra, giornalisti, fotografi che, quasi
per missione e senza alcuna protezione né garanzia, partono per raccontare da
vicino le dinamiche che hanno scelto di conoscere. Non restano negli alberghi,
dove la stampa internazionale è spesso assiepata in attesa dell’ultima agenzia.
Notizia preceduta e seguita immediatamente da altre, uguali,
indistinguibili.(…) Ecco, questi reporter scendono in strada, abbandonano la
prudenza, perché l’informazione coincide con le loro vite e provare a mostrare,
attraverso il proprio sguardo, un angolo di mondo, diventa uno scopo, non più e
non solo un lavoro. Spesso Il Coraggio necessario per raccontare si misura
solo quando per farlo si muore. Simone Camilli,35 anni, Giornalista della
Associated Press, è morto lo scorso 13 agosto, facendo il suo lavoro di
reporter coraggiosamente, ovvero andando dentro le cose. E’ morto a Beit Lahya,
nel nord della Striscia di Gaza, insieme al suo interprete e a tre artificieri
palestinesi, mentre filmava un’operazione di disinnesco di una bomba lanciata
dall’esercito israeliano nei giorni di conflitto con Hamas. (..). Il padre era
un giornalista Rai e con un po’ di fortuna avrebbe potuto seguire le sue orma,
ma non l’ha fatto. “(..) devo andare dove succedono le cose” e questo, per
chiunque voglia raccontare, è un breve ma necessario assioma, da scolpire nella
mente, perché resti indelebile. (..). Queste parole si annodano a quelle di
Camille Lepage, un’altra giovane reporter morta il 13 maggio scorso. “Non posso
accettare – ha scritto Camille – che certe tragedie vengano tenute sotto
silenzio perché nessuno può farci dei soldi. Così ho deciso di fare da sola, di
portarle alla luce, non importa a che prezzo”. E il prezzo che ha pagato è
stato altissimo. Camille è stata uccisa a 26 anni mentre stava filmando un
reportage nella Repubblica Centrafricana.(..). Il Committente To
Protect Journalists ha
contato dall’inizio del 2014 quasi trenta tra giornalisti, reporter,
fotoreporter, fotografi e operatori uccisi sui fronti di guerra in tutto il
mondo. Non solo in Israele e nei Territori Palestinesi, ma anche in Iraq,
Siria, Ucraina. (…), ma ci hanno raccontato storie, ci hanno raccontato vite.
Ecco perché il loro lavoro è fondamentale: quando un morto smette di essere
l’ennesimo ma diventa unico, quando un morto ci viene raccontato da vivo,
quando ci viene mostrato un percorso alternativo, è solo in quel momento che
siamo, da osservatori, davvero in grado di capire l’orrore della guerra. La sua
assurdità, la sua crudeltà. Queste morti spesso sono casuali, o meglio,
sembrano casuali. Una mina esplosa, un proiettile vagante. Altre arrivano dopo
condanne, vere e proprie esecuzioni. Perché raccontare, fotografare, filmare
provare a capire, mostrare le contraddizioni, offrire ipotesi, punti di vista,
interpretazioni, resta sempre la cosa più pericolosa che si possa fare, a
qualunque latitudine.
Roberto Saviano – L’Espresso – 28 agosto 2014 -
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