C’è da prendere in
seria considerazione l’eventualità che ogni individuo sia, naturalmente e
geneticamente, egocentrico e narcisista e che l’arte contemporanea possa
costituire un’ottima e opportuna difesa contro il distruttivo giudizio
razionale della scienza psicologica. Il nostro ego, infatti, tende a sottrarsi
alla paura di confondersi con la massa riconoscendo solo quegli aspetti che
comprovino la supremazia e l’originalità dei suoi gesti e dei suoi pensieri.
Inoltre l’artista non deve prendersi la briga di sentirsi responsabile del
significato che le sue opere possono avere (nei rari casi in cui dovesse
capitare che, anche per sbaglio, ne abbiano uno). Tutte le responsabilità sono
da ascriversi, sempre ed esclusivamente, al povero osservatore. E questo perché
la sua interpretazione soggettiva e la sua reazione imprevedibile vengono
determinate più dalla propria personale percezione ed esperienza estetica che
dall’opera dell’artista, considerabile solo come uno “stimolo efficace”.
L’osservazione è sempre un atto personale e colui che osserva “produce”
l’immagine che guarda. Claudio
clabaldi72@libero.it
Chi è l’artista? Colui che sa uscire dal recinto protetto
della ragione per accedere a quell’abisso che è la follia che ci abita. Non per
descriverla, perché tutto ciò che è biografico non è necessariamente artistico,
ma per usare la propria follia come uno strumento che consente di catturare
quello sfondo irrazionale da cui l’umanità ha cercato di difendersi e di
emanciparsi attraverso i riti, le religioni, e infine attraverso la ragione
che, come un giorno lucido e senza ombre, prova a difenderci dalla luce nera e
così poco rassicurante che sono le tenebre dell’insensatezza, sempre in
agguato, nelle quali in ogni momento possiamo precipitare. Il vero artista non
è, come lei sospetta, colui che vuole distinguersi dalla gran massa per effetto
di un esasperato narcisismo, e neppure colui che si ritiene tale perché dà
espressione alla propria personale follia, affidando all’osservatore la
ricostruzione di un senso che neppure aveva intravisto all’origine della sua
creazione, e per giunta irresponsabile perché non è tenuto a dover rispondere
dell’opera sua. Artista è colui che, con la sua creazione, è in grado di
svelare alle nostre coscienze difese e tranquille che “l’uomo è un lacerato”, e
che questa lacerazione, che già Platone aveva ben descritto, è in componibile,
nonostante gli sforzi di tutte le religioni che ne proiettano nell’aldilà la
composizione, e della ragione che, nell’aldiquà, ci difende dall’irruzione
della follia, sempre in agguato ai margini della nostra “assennatezza”. (..).
L’atto creativo, infatti, non nasce all’interno di quel sistema di regole in
cui la ragione consiste, ma nello sporgere dal suo recinto, con tutti i rischi
che comporta. Per questo Heidegger parla dei poeti come dei “più arrischianti”.
Grazie all’opera d’arte che nasce da questo loro “arrischiarsi”, si dischiude
quello che Holderlin, e dopo di lui Rilke, chiamano “l’Aperto”, dove è
descritta la condizione umana, caratterizzata da quella “totale assenza di
protezione” da cui la ragione ci difende, per evitarci di sporgere là dove
nulla più è rassicurante, ma dove, anche, si rivelano sensi e significati
imprevisti per la ragione stessa e inauditi per il nostro abituale modo di
pensare. Per questo dobbiamo essere grati agli artisti e ai poeti. Con il loro
sacrificio (mentale) dischiudono per noi l’Aperto.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 22 agosto 2015
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