“Non è un gioco. Ti svegli la mattina e sai che il 27 dovrai
pagare un milione di euro di stipendi a230 persone. Che in cassa hai soldi solo
per i prossimi tre mesi. E che da quei soldi dipendono dieci aziende, duecento
nuclei familiari, oltre che un pezzo possibile di futuro del paese. Non è
faile. Ma non tornerei mai indietro”. Ruggero Frezza aveva “una vita
precedente”, dice. Diciannove anni di insegnamento (ingegneria elettronica)
all’università di Padova. Poi, nel 2007, sul crinale della risi, proprio mentre
il posto pubblico diventava aspirazione ossessiva di molti, ha lasciato la
attedra. Addio. A 46 anni si è buttato a tempo pieno in “M31”, una società che
aiuta i ricercatori universitari ad avviare le loro imprese. Ne hanno dieci
ora, in pancia. Tutte medio-piccole, agli esordi. Tanto promettenti quanto
fragili. Per loro ha trovato e gestito circa quindici milioni di euro di
investimenti. Ma è dura. “Molti alzano bandiera bianca. Ma so che ce la faremo,
le loro idee sono troppo belle”: Frezza è l’unico ad oggi ad avere lasciato
l’ateneo per seguire un business così al cardiopalma. “Vedevo troppi laureandi
di grande valore non trovare occupazioni per esprimere il loro talento. Idee
potenzialmente dirompenti lasciate in un assetto e rubate dall’estero”,
racconta: “Ho provato a ambiare qualcosa fondando degli spin-off dentro
l’università ma non funzionava. O facevo bene il professore, o il resto”. Ha
scelto il resto. Quando ero il “professore-cpn-la-sua-piccola-start-up”,
spiega, aveva fatto errori madornali, che ha deciso di aiutare gli altri a non
ripetere. “Partendo dal capire che un impresa non è una tecnologia, ma un
gruppo di persone, e di competenze”, continua; “E che non va presa come un
giocattolo, ma come qualcosa che certamente nasce in piccolo, ma può diventare
grande, importante”. Rimpianti, per la sua vita di prima, giura di averne
pochi. “Dormivo di più, di certo. Ma mi mancano soprattutto i ragazzi, gli
studenti, sempre nuovi, on idee nuove. E le conferenze internazionali dove
confrontarsi con i colleghi. E quella libertà di potersi svegliare la mattina e
dire, ad esempio: “Oggi studio il processo di produzione del cioccolato”. Ha
lasciato tutto questo per cosa? “Per costruire ricchezza. Per dare possibilità
all’innovazione. Le tecnologie su cui stiamo investendo potrebbero diventare la
base di grandi imprese, di invenzioni mondiali. Perché deve succedere altrove e
non qui?”.
Daniela Minerva e Francesca Sironi – Università – L’Espresso
6 Agosto 2015
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