Ho Trentacinque Anni ancora per circa un mese e sono
dantescamente nel mezzo del cammin di nostra vita, salva la necessaria
considerazione dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Sono abituato a fare
bilanci, perché da quasi 10 anni le persone che incontro mi chiedono spesso di
guardarmi dietro, di riflettere su quello che ho fatto e chiedermi se ne sia
valsa la pena. Sono stato sollecitato a riconsiderare anche il passato più che
prossimo, quindi con i bilanci sono abituato a convivere. (..). Io che non vivo
la quotidianità da molto tempo – non per mia scelta – ma che per questo vengo
spesso accusato di parlare di cose che non conosco, sento la necessità di
calarmi nella normalità della mia generazione, poiché noi tutti, anche io
dunque, siamo quelli nati con un debito pro-capite già oltre la soglia di
guardia e che nel tempo della nostra adolescenza è andato progressivamente
crescendo, per poi esplodere quando ci siamo affacciati al mercato del lavoro.
(..). I nonni si trovarono al cospetto di un Paese distrutto economicamente e
fiaccato da venti anni di dittatura, con tutto quanto questo comportò in
termini di compromissione morale della popolazione. Noi, più modestamente, ci
troviamo a dover riciclare gli scarti lasciati dalla generazione dei nostri
genitori, le cicale del ventesimo secolo. Non è questo un discorso valido
ovunque, ma in Italia ha un qualche senso: gli anni Sessanta e Settanta del
Novecento hanno ovunque conosciuto una stagione di grande vitalità e i nostri
padri, figli allora, combatterono una battaglia costante e senza quartiere
contro i loro padri, con l’obiettivo unico della liberazione delle loro vite,
nell’istruzione, nel lavoro, nell’amore e in famiglia. Quel Patrimonio
di conquiste sociali e civili è oggi acquisito, ma mentre altrove quanto
seminato ha continuato a dare frutti, l’Italia sembra ferma dagli anni
Settanta, poiché non un passo si è fatto in quella direzione, per portare a
compimento quelle battaglie e consentire la nascita di nuovi diritti. Anzi, le
timidezze su conquiste ormai quasi “banali” sul piano dei diritti civili
lasciano davvero attoniti (oltre a costituire materia di costante richiamo in
sede europea). Questa strada interrotta – che è il frutto di un repentino
adattamento alla realtà di quelle generazioni di sognatori – trova un
corrispettivo, particolarmente visibile nel Mezzogiorno d’Italia, nella
famelicità con la quale i figli di chi aveva accumulato hanno sperperato,
distrutto, cementificato. Ricordo Negli Anni Ottanta le elezioni nel mio Comune
d’origine, quando i candidati al Consiglio comunale erano tutti dipendenti, o
futuri tali, dei più svariati e inutili consorzi: la società meridionale stessa
pareva fluttuare in un sistema non solare, ma parastatale. Si guadagnava senza
lavorare (in nero) quando,dopo pochi anni di lavoro, si andava in pensione. E
quell’apparato di privilegi diffusi aveva preso il nome di diritti. Anche per
questo, quando sono arrivato all’età della ragione, il termine diritto aveva
smarrito il senso, oltre che la lettera maiuscola. Lo stupido egoismo della
generazione dei nostri padri trova la migliore rappresentazione nel paradosso
di chi ha scavato dall’interno lo stato sociale, e la sua stessa possibilità di
sopravvivenza, in ragione di una sua ipertrofica espansione: il prezzo da
pagare è che molti già hanno visto i figli partire, emigrare (per usare un
termine tristemente noto ai loto padri), non vedranno probabilmente i nipoti
crescere e si trovano anche nella necessità di costruire attorno ai figli che
restano una parvenza di stato social, finanziato con gli ultimi resti dei
propri bagordi.
Roberto Saviano – L’antitaliano www.lespresso.it – L’Espresso – 27 agosto
2015 -
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