Con l’acquisto
dell’Italcementi da parte della Heidelberg, la Germania si è presa un’altra
oncia del cuore industriale italiano. Ora si tratta di vedere quanto tempo sarà
necessario ai tagliatori di teste tedeschi per chiudere un bel po’ di
stabilimenti italiani e trasferirli altrove, lasciando per strada migliaia di lavoratori. E’del
resto un film già visto in altri settori, dalla chimica alla siderurgia. Dal
2007 a oggi l’Italia ha perso quasi un quarto della propria produzione
industriale, come di solito avviene soltanto dopo una guerra perduta, fra le
macerie dei bombardamenti. A fare un elenco delle grandi aziende italiane
vendute o portate all’estero soltanto negli ultimi tempi c’è da rimanere
terrorizzati, dalla Pirelli alla Fiat, da Ansaldo a Luxottica, da Indesit a
Bulgari, da Parmalat a Italcementi a Ferrari e ancora non si sa quale fine farà
l’Ilva di Taranto. Dal dopoguerra ai nostri giorni non si era mai assistito in
una nazione europea a un processo di svuotamento industriale così rapido e
potente. Non soltanto per quantità, ma anche per qualità. Sono i migliori che
se ne vanno, per così dire, le aziende e i march più competitivi, le produzioni
più tecnologiche. Se ne va insomma dal nostro Paese la complessità, la
bellezza in definitiva il futuro. Quel
che rimane ridisegna al ribasso il profilo industriale e culturale dell’Italia,
come potenza produttiva di terza fila, con un apparato vecchio. L’effetto
complessivo è un aumento disoccupazione generale. l’esplosione di quella
giovanile e infine l’emigrazione delle energie laureati e sempre meno
lavoratori altamente qualificati, ma a quei pochi non riesce neppure a trovare
un impiego adeguato. Le cause della catastrofe sono molte e alcune riguardano,
come ormai dicono tutti, le politiche di austerità. I governi italiani di
qualsiasi colore non sono in grado di favorire una vera modernizzazione, non
hanno soldi per fare le autentiche
riforme, per esempio investendo grandi percentuali di Pil sull’istruzione, la
formazione e la ricerca come hanno fatto in questi anni le nazioni del Nord.
Per pagare gli interessi sul debito sono piuttosto costretti ad aumentare le
tasse e a competere con l’industria privata nella ricerca di capitali sul mercato.
Il contrario di quanto ha fatto la Germania, che pure a noi impone queste
ricette suicide. Ragion per cui governi di ogni colore ormai da vent’anni
neppure immaginano un piano industriale e distraggono l’opinione pubblica con
finte riforme, che servono soltanto a mascherare (male) il declino. Se nulla
cambia, l’Italia continuerà a perdere ogni anno un pezzo industriale e altri
posti di lavoro, quelli veri. Quelli finti si possono sempre inventare per
legge.
Curzio Maltese – Contromano – Il Venerdì di Repubblica – 14
agosto 2015
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